La pubblicità su Internet è fondamentale per la sopravvivenza dei vari siti web. Come accade in televisione. Come accade nei giornali. Va detto però che su alcuni portali gli annunci sono davvero invasivi, specie quelli che si aprono a popup, finestre che quasi impediscono la lettura. Nell’attesa che si trovino soluzioni più soddisfacenti ho fatto un salto nell’Archivio storico del «Corriere della sera» per capire come funzionava la pubblicità alle prime uscite del giornale, negli ultimi decenni del secolo XIX.
La prima impressione è quanto fossero timide le inserzioni pubblicitarie. Tutto è affidato al testo, alla suggestione descrittiva, le immagini quasi non esistono. Si reclamizzano pillole di Creosotina contro le tossi e i catarri, pillole di Lichenina contro la tisi, sciroppi depurativi, «rimedi infallibili per la completa guarigione dei calli», il fluido Pagliano contro la sciatica, la gotta, la renella e altro ancora. Ci sono anche spazi incorniciati che magnificano panni di loden («preservano dai dolori reumatici»), la bontà superiore di mantelli impermeabili, di macchine da scrivere, di stelle filanti, di letti di ferro e di cucine economiche, le pubblicazioni di Ulrico Hoepli Editore-Libraio in Milano e, ovviamente, il già classico Fernet-Branca.
Come mai tanti annunci di carattere medico? Il fondatore della prima importante agenzia per la raccolta della pubblicità, Attilio Manzoni, era un importatore e distributore di medicinali, il prodotto maggiormente reclamizzato sui quotidiani nei primi decenni unitari. A Manzoni si deve la felice intuizione di prendere l’appalto della pubblicità dei medicinali da lui commercializzati. Il passo successivo fu estendere l’attività a tutte le inserzioni pubblicitarie sulle pagine dei giornali.
Pubblicità o, alla francese, réclame? Per carità! In un fondo del 26 settembre 1901, a firma del poeta Francesco Pastonchi, il «Corriere» si appella al purismo: «Di questo stesso barbaro réclame io propongo dunque a tutti gli italiani intelligenti e specie alla “Dante Alighieri”, la violenta cacciata dalla nostra lingua, come del più terribile vocabolo che ci abbia mai afflitto». Il vocabolo sarà anche barbarico, ma la sostanza tiene in piedi il giornale. Nel numero del 10 febbraio 1905 esce un articolo che è una sorta di illustrazione al pubblico di cosa fossero gli avvisi economici e dei vantaggi che il singolo cittadino poteva ricavare da essi: «La ragione per cui in certi giornali stranieri l’uso degli avvisi economici è così diffuso sta tutta nella consuetudine del pubblico». Si fa l’esempio del mercato degli affitti, constatando che in Italia chi deve affittare un appartamento appende un cartello «e aspetta alla grazia di Dio che fra i passanti qualcuno si fermi a leggere», mentre chi cerca casa perde giornate a girare per le vie. All’estero si pubblica un annuncio e subito si ha risposta. «Avrà speso poche lire ma avrà risparmiato del gran tempo… Perché bisogna persuadersi che, in fondo, il denaro impiegato in un avviso economico non rappresenta una spesa ma un impiego di capitale. Piccolo capitale che può dare spesso frutti insperati».
Con il passare dei decenni, con l’avvento del cosiddetto «boom economico», la domanda di spazi pubblicitari si fa sempre più pressante. Basta sfogliare le inserzioni degli ultimi decenni del «Corriere» per accorgersi che dalla pubblicità passa quel processo fondamentale per comprendere i mutamenti sociali che va sotto il nome di «socializzazione anticipatoria», e che consiste nell’identificazione del lettore con modelli, identità collettive che non rientrano nella sfera diretta di esperienza del soggetto, ma con le quali questi viene a contatto attraverso i media: la pubblicità, appunto, come stile di vita. Da sempre, la pubblicità raccoglie spunti, idee, immaginari diffusi e contribuisce a rafforzarli, a farli circolare nel contesto sociale e culturale. È in questo senso che anche la pubblicità di un giornale ha giocato e gioca un ruolo centrale nel cogliere e raffigurare certi tratti del cambiamento sociale. Nel momento in cui si afferma la soggettività di massa, il consumismo inteso non più come strumento egualitario ma come contrassegno delle identità e dei valori, la pubblicità mette in scena nella maniera più esplicita la fantasmagoria dei desideri e dei sogni diffusi di qualunque Paese. Verrà un giorno in cui, qualche ricercatore leggerà l’attuale pubblicità su Internet con lo stesso stupore con cui ho sfogliato i primi numeri del «Corriere della sera»?