Le vetrate di Sergio de Castro a Romont

/ 14.03.2022
di Oliver Scharpf

In manco, lo confesso, di vetrate astratte nella penombra gotica, cammino a passo di marcia (in salita) verso la collegiale di Romont risalente, in alcune parti, al 1244. Sergio de Castro (1922-2012): nato a Buenos Aires, infanzia tra Losanna e Ginevra, studi musicali a Montevideo, atelier a Parigi dal 1953 via, ispira il personaggio di Etienne nel prodigioso Il gioco del mondo (1963) di Julio Cortázar. Sette passi e colgo, nella navata laterale sinistra, i primi rigagnoli metafisici di luce colorata dell’opera inaugurata, dopo tre anni di lavoro, il venti settembre 1981. Cinque vetrate, cinque profeti, partenza con Noè. L’utilizzo di verde acido, dosato qua e là nei pezzetti di vetro come in una partitura, provoca un effetto euforico. Diciassette altre tonalità, stemperano poi la sferzata emotiva iniziale, componendo una polifonia movimentata dalle ondate di piombo. Mi sintonizzo sui percorsi sinusoidali e vago con lo sguardo finché non emerge, in alto, un arco. Catturo delle lettere, decifro parole, ma il versetto biblico, sincopato al massimo, non si legge se non ne sei a conoscenza: «Je mets mon arc dans la nuée et il deviendra un signe d’alliance entre moi et la terre». Genesi, capitolo nove, versetto tredici. L’arcobaleno di Yahweh – il cui simbolo triangolare è iscritto nel trilobo del traforo – calma il maremoto del diluvio universale e mette in salvo l’arca di Noè. Due passi nell’ombra perfetta del collaterale nord un pomeriggio di marzo ed ecco, nella seconda delle vetrate di Sergio de Castro a Romont (779 m), i movimenti da liana del verde acido che divampa. Il traforo qui, modellato nella molassa dopo l’incendio del 1434, è di un gotico fiammeggiante ispiratore. Tre fiamme, note anche come vesciche natatorie, nel vuoto della pietra, partecipano al ritmo di tutta la vetrata e sono addirittura all’origine del soggetto: il roveto ardente di Mosè. Nella vetrata dopo si scopre, nascosta nella formidabile astrazione geometrica vorticosa, la figura di Elia. Astrattismo mimetico dunque, per visitatori non frettolosi a pesca di versetti sminuzzati e profeti camuffati. Nella quarta vetrata Jesse addormentato, dal volto quasi cubista e introvabile, sogna il suo albero profetizzato da Isaia (11, 1): «un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici». Parole, in francese, distribuite in verticale perdendosi tra i rami di questo albero genealogico che «diventano vene dove circola il sangue di Jesse» annota lo stesso Sergio de Castro in Les prophetes (1984) di Jacques Thuillier. Sangue che sarà quello della Vergine Maria rappresentata, in cima, da un fiore a sei petali. Altri fiori e foglie si acciuffano con gli occhi, qua e là, verso il coronamento gotico – tra fiamme e trilobi – della vetrata. Il profeta più afferrabile è Giona uscito dalla balena, invisibile, nell’ultima vetrata dove si è abbagliati dall’armonia luminosa per contrasto intenso di blu e rossi. Il rosso garanza, come l’indaco, mostra, a tratti, una certa sfumatura. Se il mastro vetraio è sempre – come per Manessier a Friburgo e Bazaine a Berlens – Michel Eltschinger, il compito della patina è stato affidato alla mano di Elyzabeth Zbinden con l’aiuto dei peli di tasso. Passo dopo passo, il mio sguardo percepisce di aver appena seguito una suite. Ogni vetrata dedicata a un profeta è una storia a sé con un suo ritmo e una sua gamma di colori ma sono percorribili come una carrellata in cui alcuni elementi s’intrecciano ad altri, qualche passo dopo. Ancora meglio è ripercorrere, a ritroso, la suite in cinque movimenti, dalla navata centrale, calibrando così l’occhio da una certa distanza per cogliere ulteriori sfumature di significato. Ultime lettere di versetti nascosti (Matteo 12, 39), fiamme gotiche come girini o angeli adoranti, un’ultima dose, più attenuata, di verde acido, tragitti maya, macedonie cromatiche per più tristi giorni. Colpo di scena sono i mostriciattoli cesellati da un ebanista anonimo. Tredici bestiacce fantastiche ornano qua e là, nel coro, gli stalli in quercia del quattordicesimo secolo. Un illustratore canadese di Tolkien afferma di essersi ispirato a queste mostruosità grottesche. Eppure, quei vacui disegni fantasy kitsch con questi meravigliosi cani dal volto umanoide barbuto o gufi con facce da troll, c’entrano come i cavoli a merenda.