Le vetrate di Brian Clarke a Romont

/ 28.03.2022
di Oliver Scharpf

Mai stato in tutta la mia vita a Romont – sempre solo fermato con il treno un milione di volte, pensando subito, ogni volta, al sadico di Romont, il peggior serial killer svizzero – e adesso mi ritrovo, nel giro di poco tempo, per la terza volta a Romont. Una badessa con dottorato in fisica nucleare e un artista inglese con passato da punk modaiolo sono i protagonisti principali dell’ultima puntata della mia serie di pezzi sulle migliori vetrate moderne da questi parti. A due chilometri neanche dalla stazione, nell’aria frizzante di fine marzo tra la sesta e la nona, vale a dire, secondo la liturgia delle ore, tra mezzogiorno e le due e un quarto, seguo il corso – appena riemerso da sotto la trafficata route de Fribourg – del Glaney. Poco prima del punto in cui questo torrentucolo sonnolento si getta nella Glâne che scorre indolente tra i campi aridi, dal 1268 sorge l’abbazia Fille-Dieu. Abbazia cistercense la cui badessa dell’epoca, Hortense Berthet (1923-2004), soprannominata, un po’ per i suoi studi un po’ per la sua personalità colma di amore e humour, «Mère atomique», in occasione del restauro della chiesa dove arrivo ora davanti, sulla scelta di Brian Clarke, definito dal «The Guardian» la «rockstar della vetrata», ha avuto l’ultima parola. Oltre a darne, senza tante storie, il tema: la speranza.

All’una meno cinque spingo la porta dell’abbaziale e un bagliore diffuso che sgorga dall’alto, avvolgendo di gioia la semplicità delle vecchie mura beige con frammenti affrescati color sinopia, strega ai primi passi. Le quindici vetrate di Brian Clarke posate nell’agosto 1996 qui a la Fille-Dieu (690 m) di Romont, proiettano un’ombra colorata capace di tagliare tutto il mondo fuori, complice il silenzio assoluto dell’edificio restaurato da Tomas Mikulas con soffitto in legno che attutisce e ovatta. A stento penetrano i cinguettii primaverili, mentre seduto su un banco di quercia, m’immergo nella trama a quadratini blu della terza vetrata sud che inonda lo spazio di luce aranciata ottenuta dalla griglia, graduata a tratti, grazie a un decrescendo verso il celeste. In mezzo galleggia una figura amorfa verde sfumato. Effetto sopraffino, superiore, di un vetro boemo antico, soffiato, proveniente dalla Glashütte Lamberts di Waldsassen, vicino al confine con la Cechia. Al quale, oltre l’immaginazione dell’artista classe 1953 nato a Oldham, sobborgo nord-est di Manchester, è aggiunta la sapienza della prestigiosa vetreria Franz Mayer di Monaco risalente al 1847.

Mi alzo e giro, sperimentando nuove angolature e studiando l’effetto vetrata deambulando. Il rigore calmo delle trame a quadratini e la corrispettiva griglia, richiama l’ordine sobrio delle antiche vetrate cistercensi: non figurative, quasi incolori, con motivi geometrici. Le figure astratte delle vetrate, eteree, ottenute con incisione all’acido su vetro e colori ceramici, ricordano foglie morte nelle fontane. Nelle cinque vetrate a nord, le più piccole e timide, da cui entra meno luce perché danno su un chiostro e sono tutte a quadratini blu e azzurri, le forme amorfe in rosso e giallo o verde asparagi, sembrano petali volanti di fiori estrosi tipo gigli o iris. Voli di uccelli all’imbrunire, pappagalli indistinti, foglie d’edera in controluce tra i ruderi. Mi risiedo, su un banco più avanti. Credo abbia ragione Madre Hortense: «non saprei dire altro se non che le trovo belle e le amo». Di certo il tema speranza è centrato in pieno e le monache (famose per la loro senape in vendita qui nel negozietto accanto) che si riuniscono qui sette volte al giorno per cantare le preghiere, non possono lamentarsi. Una in particolare, quella laggiù in fondo al coro, è la mia favorita. Un po’ per il trilobo e i due quadrilobi del traforo, l’unico di tutte e quindici, ma soprattutto per quella trama a quadratini blu elettrico che interseca quella azzurro nontiscordardimé, sfondo ideale per esigue figure rosse-arancio-giallino evanescente, che salgono in volo, a spirale, come petali o foglie o ali o niente di tutto questo, verso il cielo. Per non parlare della luce mistica blu, provocata anche dalle due finestre invisibili a sud, che aleggia lì sospesa, in quest’angolo irraggiungibile se non con lo sguardo. O colpisce, quasi con effetto Tyndall, con riflessi incantevoli, attorno l’altare in pietra di Tavel, il pavimento.