Le valli mandano a dire

/ 08.02.2021
di Ovidio Biffi

La scorsa primavera ho incontrato due carissimi ex-commilitoni in uno dei posti più bucolici del nostro cantone: i grotti di Personico. Un po’ per colpa dei bei ricordi legati alla soprastante Val d’Ambra, o forse perché quella era la prima gita dopo il lockdown (ancora non si temeva il bis...), appena arrivato e guardando a nord l’inizio della valle, ho avvertito una botta di malinconia. Figlio di una delle valli minori (la Valle di Muggio, ora rivalutata perlomeno per il suo paesaggio e, si spera, anche per futuri programmi) appartengo a una generazione che, adolescente negli anni Sessanta, è approdata alla maturità senza particolari coinvolgimenti nella dimensione socio-politica di quei tempi. Non per incomprensione o astio, o come tanti per indifferenza o menefreghismo; piuttosto perché lotte giovanili e mutamenti intergenerazionali di quei tempi non mi hanno mai convinto.

Più dei proclami di grandi contestatori e dei loro megafoni piazzati anche nelle nostre città, a lenire le cicatrici del passaggio da paesano a cittadino e a far prevalere sempre il legame originario hanno contribuito i versi di una poesia di quei tempi di Pier Paolo Pasolini: «Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore». Non proprio un mantra, ma pur sempre un richiamo, poi diventato quasi automatico, a rispettare il passato e la tradizione. Questo per spiegare il velo di malinconia che avverto non appena nella mente arrivano tematiche riguardanti le valli o discorsi su una politica sempre refrattaria verso chi abita in quota o «fuori mura».

Quel mattino di primavera, guardando verso nord, mi sono sorpreso anche a cantare mentalmente un «O mia bèla Leventina...», chiedendomi poi subito come potessero la «Madunina» di un duomo lontano e una canzone milanese balzarmi in mente come saluto per una delle nostre valli. Il pensiero è rimasto in sospeso: gli amici erano arrivati e la liturgia della rimpatriata scacciava tutto. L’ «O mia bèla Leventina...» è però ricomparso sul finire dell’autunno scorso, quando su «Azione» autorevoli colleghi hanno affrontato i problemi dell’invecchiamento demografico del nostro cantone e dello spopolamento delle valli.

Il tema – avviato da Orazio Martinetti in novembre, ma trattato e ampliato, sempre sul nostro giornale e in modo magistrale, anche da Angelo Rossi e Elio Venturelli – ha poi avuto un atto finale con il ritorno di Martinetti sul futuro delle regioni di montagna, delle valli e dei loro villaggi. Nella sua rubrica, dopo aver sottolineato che il «vedere svuotarsi il Sopraceneri come una clessidra dovrebbe preoccupare anche i sostenitori delle “città intelligenti”», Martinetti ha continuato la sua coraggiosa analisi di storico con un avvertimento che merita ripetizione: «Considerare questa parte del cantone solo come un provvidenziale ricetto per sottrarsi alla “malitia temporum” ricalca una mentalità neo-coloniale: vuol dire ignorarne le esigenze vitali, i bisogni di coloro che, fra mille difficoltà, non intendono cedere al richiamo della pianura. È compito della politica non dimenticare questo Ticino rimasto ai margini eppure determinato a resistere».

Proprio la sera prima di leggere queste parole, in un documentario su La 1, anche Ruben Rossello della Rsi aveva amabilmente «accarezzato» la Leventina, seguendo Teco Celio, versatile attore figlio dell’ex-consigliere federale avv. Nello, in una rimpatriata in valle per dare lustro, dopo tanti anni, al suo sontuoso pedigree degagnese. Simpatia ed empatia del protagonista, come pure testimonianze e progetti presentati nel documentario, non sono bastati a tenere lontana la malinconia: sullo sfondo, quasi a turno, facevano capolino spopolamento, fuga di giovani, mancanza di prospettive, pericoli di stagnazione e così via. È però molto probabile che questi drammatici elementi e altre contingenze negative spariscano quando ci si troverà nel bailamme del post-pandemia, quando chi governa o legifera, oltre ai normali aiuti e sussidi, dovrebbe contemplare anche progetti volti a sostenere chi nelle nostre valli, oltre che contro le conseguenze del virus, ha lottato e dovrà lottare anche per la sopravvivenza e cercare un futuro meno negativo. Con le loro difficoltà, in fondo, le valli ci stanno ricordando che passato e tradizione anche nel loro declino «offrono risposte a domande non ancora formulate» e quindi possono diventare ottime fonti di ispirazione.

Chi oggi cerca soluzioni per rimettere in cammino e riconnettere una società drammaticamente disorientata dalla pandemia è sempre più convinto che, piuttosto che su progetti utopistici, occorra puntare su interventi concreti come produrre energia più sostenibile, garantire maggior protezione ad acque e agricoltura, mirare alla salvaguardia dell’ambiente e dei paesaggi, promuovere nuove forme di turismo e una vivibilità più semplice e più gestibile. Allora: oltre a garantire tenuta e produttività in industrie e servizi, è proprio da sprovveduti puntare subito anche su quanto le nostre valli possono offrire in tutti questi ambiti?