Il Signor Kazuko Yuge ci si fa incontro alla porta del pulmino, fa un inchino profondo e dice: ‘Benvenuti alla fattoria delle vacche felici’. Il mio collega mi lancia uno sguardo fra l’interrogativo e lo scettico – come per dire: ‘Ma dove siamo capitati?!’. Già: dov’è capitato, stavolta, l’Altropologo? Bella domanda: dopo undici ore di volo Francoforte-Tokyo su un jumbo della Lufthansa impaccato come una scatola di sardine marocchine (quelle che, essendo atlantiche, sono grosse come mezze balene e dunque stanno ancora più strette) alle quali si aggiungano altre due Torino-Francoforte e due ulteriori Tokyo-Kobe proprio avevo anch’io nozioni vaghe di dove si fosse.
Il perché si fosse dall’altra parte del mondo altrettanto misterioso: raid di un commando di docenti dell’Università delle Scienze Enogastronomiche di Pollenzo (Torino) – il braccio armato accademico del movimento Slow Food -organizzato dalla cellula Slow Food International Giapponese e dall’Università di Kobe. Scopo? In primis prendere conoscenza dei progressi del globale movimento enogastronomiche in quelle lande antipodali e, in seconda battuta, insegnare una Master Class fulminante di tre-giorni tre ad un gruppo di studenti selezionati. All’Altropologo il compito di insegnare in tre ore tutto quello che occorre sapere per vivere meglio su Cibo e Carnevale e su Cibo e Commemorazione dei Morti.
Kobe è famosa per la carne delle sue vacche che vengono massaggiate regolarmente per far sì che il grasso si distribuisca a strati (un po’ come succede col salmone) ed ottenere una carne (dicono) deliziosa e – soprattutto – che costi una bomba. Insomma, ci si presenta ancora mezzo rimbecilliti dal jet lag alla Lattière Yuge (sic, in francese: vedi peraltro yugefarm.com – stavolta in inglese) e il Signor Yuge ci saluta alla sua civilissima maniera. Il problema è che è vestito da cowboy texano: cappellone a larghe falde, camicia a scacchi, fazzoletto al collo, corpetto di pelle, cinturone con fibbia a tema cowboy, jeans e stivaletti col tacco. Insomma: fate conto una sorta di Yul Brynner nei Magnifici Sette (che peraltro col Giappone c’entravano perché erano copiati da I sette samurai di Akira Kurosawa anche se il problema resta di cosa c’entrino poi i giapponesi coi Magnifici Sette – insomma una bella confusione). grazie a Dio il Nostro non porta pistole e dunque ci si rilassa. Ci guida verso lo chalet dove verrà servito il pranzo che è sempre una buona idea.
Lo chalet è in realtà una sorta di ibrido fra la baracca di un ranch texano, un rifugio alpino del Canton Grigioni e l’annesso ristorante di un tempio Shinto. La confusione s’infittisce vieppiù quando noto appesi al muro una serie di collari da vacche tirolesi – più uno con la croce rossa confederata. Accanto una bella sella da cavalli stile texano. Il mio collega mi guarda e scuote la testa. Che continuerà a scuotere sine die quando ci viene servito il primo piatto: una porzione minimalista di fromage frais con due fettine di pane tipo – tipo, dico – baguette che metà dei nostri amici giapponesi lascia sul piatto. «Perché?» – indaga l’Altropologo. «Perché se mangiamo latticini ci viene la diarrea». Insomma: salta fuori che a Kobe ed in pochi altri posti in Giappone dove si producono latticini la tradizione viene dai tempi in cui, con l’apertura dei porti di Yokohama e Kobe agli europei nella seconda metà dell’Ottocento, si cominciò a produrre latte e formaggi per i numerosi residenti europei che invece i latticini li digeriscono per uno di quei misteri dell’evoluzione sui quali ancora si discute.
Bene: l’annunciato «stufato di carne» si riduce ad una ciotola di acqua calda nella quale galleggiano una noce di carne bianca e pochi detriti di verdure, carne rivelatasi in seguito essere pollo. E noi che si sognava la vacca di Kobe. Scuoto la testa anch’io. Sì, perché, come spiegherà di lì a poco il Signor Kazuko, la Yuge Farm è un allevamento etico dove le vacche sono felici. Libere di girovagare per i cinque ettari della tenuta, le venti vacche su cinquanta che producono latte vanno a farsi mungere da un robot (salterà fuori che è di produzione svedese così come il mangime è americano «ma stiamo per sostituirlo con un tipo senza OGM») ogniqualvolta ne sentono il bisogno e si nutrono al silos robotizzato che da loro esattamente la porzione di cibo programmata nella chip che le vacche portano al collo. Naturalmente c’è musica e magari le mandano pure in vacanza. «Qui le vacche invecchiano naturalmente, e quando vediamo che non ce la fanno più le vengono a prendere…».
Svelato il mistero dell’assenza di carne di Kobe nell’allevamento di Vacche di Kobe (che poi sono di razza Holstein) veniamo condotti a vedere le vacche felici al pascolo libero. Ci si presenta una collina di terreno sabbioso – non certo da pascolo - sulla quale sopravvivono alcuni alberi d’alto fusto su un terreno peraltro ripulito da ogni filo d’erba come se l’avessero asfaltato. Di vacche felici nemmeno l’ombra. Il Signor Yuge si profonde in scuse e spiega. Da quando ha adottato il sistema della libera uscita le vacche gli hanno devastato il bosco e la collina. Hanno mangiato tutto il possibile fino ai cespugli ed ai germogli degli alberi che non crescono più. Quel che è peggio è che marciando su e giù per il pendio hanno eroso la collina tanto che adesso è piena di canaloni ed altri scoscendimenti nei quali le vacche scivolano e si azzoppano.
Oggi è obbligato a lasciar liberi solo i vitelli: non arrivano a brucare i germogli degli alberi, sono più leggeri e fanno meno danno. Nemmeno l’accenno di un sorriso: tutto maledettamente serio. Poi il colpo di grazia: «Io penso – dice – che le Alpi siano così alte e dirupate, così scavate e prive di alberi per via dei milioni di vacche che ci sono andate su e giù nel corso dei millenni». Mi volto a guardare il mio collega nelle retrovie: ha le lacrime agli occhi. Non capisco se rida o se pianga. Mi dirà che non lo sapeva manco lui. Ma forse era il jet lag.