Le tre strategie americane

/ 13.01.2020
di Aldo Cazzullo

Eliminare il numero 2 del regime iraniano è una reazione sproporzionata rispetto a un fatto serio ma non irrimediabile come una chiassata di fronte all’ambasciata americana a Baghdad. Le sedi diplomatiche dovrebbero essere sacre; ma usando questo metro Carter avrebbe dovuto bombardare Teheran, quando i pasdaran tenevano i diplomatici Usa in ostaggio. Tentò invece un maldestro blitz, naufragato nel deserto, che gli costò la rielezione. Ma Reagan non usò la forza; liberò l’ambasciata con la diplomazia. Donald Trump ha invece eliminato il generale Qassem Soleimani con un drone.

Quella iraniana è la prima vera crisi (Corea del Nord a parte) che il 45esimo presidente degli Stati Uniti si trova ad affrontare. Pur attento a non scatenare nuove guerre, Trump ha capovolto la strategia di Obama verso Teheran. Ora, drammatizzando la situazione ed esponendosi alla vendetta degli ayatollah, si è messo in pericolo; anche se poi ha usato parole distensive, dicendo in sostanza «finiamola qui». Il regime di Teheran è odioso; ma attaccarlo, in un momento in cui veniva contestato dall’interno, rischia di rafforzarlo.

In realtà, la campagna elettorale americana è già cominciata. A Capodanno Trump non ha tenuto discorsi, ma ha risposto alle domande dei giornalisti. Era in smoking, teneva per mano Melania in abito da sera luccicante, sullo sfondo si sentiva una musica ballabile. Alla fine, sollecitata da una cronista, ha parlato anche Melania, auspicando la pace nel mondo. Poi Trump ha ripreso brevemente la parola, pronunciando una frase che sarà il leitmotiv della sua campagna: «America has never done better», l’America non ha mai fatto meglio di così. «Mai così pochi disoccupati. Mai tasse così basse. Mai così tanta gente al lavoro: African-American, Asian-American, Hispanic-American». Come a dire: il trumpismo fa bene a tutti, ai ricchi ma pure ai poveri, ai nativi come agli immigrati. Resta da vedere se il confronto con l’Iran rafforzerà questo racconto. O se lo metterà a repentaglio.

Il «New York Times» ha pubblicato l’altro giorno un interessante editoriale di Elizabeth Cobbs e Kimberly C. Field che tentava di rispondere alla domanda-chiave: «Perché l’America ha ucciso Soleimani?». La risposta potrebbe essere ovvia: perché, nella fase in cui si sta ritirando dalla regione, vuole dimostrare che può ancora colpire e non è disposta a lasciare troppo spazio all’Iran. Ma la crisi mediorientale è anche l’occasione per porsi un’altra domanda: l’America ha oggi una strategia? E quale sarebbe la migliore? Semplificando forse un po’ troppo, Cobbs e Field sostengono che nella sua storia l’America ne abbia avute solo due. Quella di George Washington, il cui corollario è la dottrina Monroe: non abbiamo bisogno di alleati; l’Europa non ha diritto di interferire Oltreoceano. E quella di Harry Truman, basata al contrario sulla costruzione di una rete di alleanze per contrastare il nemico sovietico.

Vinta la Guerra fredda, l’America oscilla ora fra tre diverse strategie. Poliziotto del mondo, pronto a intervenire nelle crisi interne dei vari Paesi, da Haiti alla Somalia, dal Kuwait all’ex Jugoslavia: un po’ quello che fecero Bush padre, Clinton e – con avventatezza – Bush figlio; e palesemente non ha funzionato. La seconda strategia è quella denominata «Fortezza sulla collina»: come se l’America fosse un fortilizio equipaggiato per tutto, compresa una nuova guerra fredda con la Cina, da combattere con le armi dei dazi e dello spionaggio elettronico. La terza strategia è quella della «Città sulla collina»: ritiro dai teatri di guerra; massicci investimenti in infrastrutture; ammodernamento dell’esercito come deterrente. Trump oscilla tra queste due ultime visioni. Con quel pizzico di imprevedibilità che, se usata bene, può essere una forza; ma che può anche provocare disastri.

Rimane da capire se sarà ancora lui il presidente per i prossimi quattro anni. A novembre si vota, e i democratici non hanno ancora un leader. Sono divisi tra l’ala radicale, guidata da Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, e l’ala moderata. Personalmente sono convinto che alla fine il candidato democratico sarà Joe Biden. E che possa battere Trump, riconquistando Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. Anche se battere un presidente in carica non è mai facile. Soprattutto quando spirano venti, se non di guerra, di crisi aperta.