Le storie, non sempre, fanno la storia

/ 08.10.2018
di Luciana Caglio

È partita bene la nuova stagione di «Storie». Con «1918 fuga dalla Russia», i realizzatori della docufiction, proposta recentemente dalla TSI, avevano a disposizione un caso per così dire ideale. Quando, cioè, una vicenda familiare coincide con un evento della grande storia. Questa volta, si tratta addirittura della rivoluzione bolscevica che, nel febbraio del 1917, coinvolse una piccola collettività di persone che, più politicamente estranee e innocenti, non potevano essere. Appartenevano alla «Colonia italo-svizzera San Nicola» fondata a Piatigorsk, Caucaso, nel 1896 da un agronomo ticinese, sul terreno preso in affitto da un principe russo. Ora quest’emigrante, partito da Morcote, con il proposito di «introdurre tecniche di lavoro moderne per l’allevamento del bestiame, la coltura della vite e degli alberi da frutto», si chiamava Michele Raggi: un nome che ci è ben noto.

È quello di un pediatra luganese, suo pronipote, che incuriosito della figura dell’intraprendente bisnonno, decise di ritrovarne le tracce, sulla scorta di un prezioso diario. Dal 22 marzo 1918 al 25 gennaio 1919, Raggi aveva annotato su foglietti, poi nascosti all’interno del suo bastone, gli avvenimenti sempre più tragici di cui era testimone e, infine, vittima, tanto da costringerlo a un’avventurosa fuga. Fu questo documento a indurre il giovane Raggi a proseguire in una ricerca, destinata via via ad allargarsi. L’episodio del suo antenato s’inseriva, infatti, nel fenomeno migratorio che, sino a un secolo fa vedeva i ticinesi dalla parte di chi, l’ospitalità, la deve chiedere. Maturò così l’idea di un libro per far conoscere, appunto, le due facce di un evento che avrebbe diviso il mondo, come non mai. Nel 1995, pubblicato da Dadò, usciva il volume, scritto a quattro mani, da Michele Raggi e dallo storico Giorgio Cheda: Dalla Russia senz’amore. Il titolo, che si rifaceva a un episodio della serie 007, non mancò di suscitare qualche malumore, fra i nostalgici del muro da poco abbattuto, poco inclini al sorriso.

Succede, insomma, e lo conferma il caso Raggi, che un destino individuale assuma le dimensioni e il significato di un’esperienza in grado di meritare l’attenzione collettiva. E, quindi, si giustifica l’impegno dei discendenti per recuperare le impronte lasciate da antenati, protagonisti o testimoni di avvenimenti rilevanti. Da queste ricerche, paragonabili per certi versi agli scavi archeologici, emergono frammenti che vanno a completare l’enorme mosaico del nostro passato. È un’operazione in cui si corre il rischio di perdersi, inseguendo l’obiettivo illusorio di un background illustre, spesso da inventare. Grazie ai mezzi informatici, ormai si possono costruire alberi genealogici lusinghieri, con tanto di relativi stemmi. Anche, in quest’ambito, un tempo riservato agli specialisti, si assiste all’avanzata del fai da te.

Sta di fatto che la genealogia si democratizza, mettiamola così, e ha ormai creato un mercato, che funziona, e un hobby, che va di moda. Un fenomeno che sarebbe troppo facile liquidare con l’ironia. Certo, rappresenta un aspetto di quel culto di sé, di cui i social sono l’indizio più evidente, con effetti in bilico fra ingenuità ed esibizionismo. Qui, però, c’è dell’altro. Questa ricerca dei propri antenati rivela un bisogno di appartenenza, di un punto fermo, delle famose radici in cui si rispecchia lo spirito di un’epoca, ripiegata sul passato e impaurita dal futuro. Non sempre, tuttavia, questo viaggio a ritroso nel tempo, contribuisce alla nostra sicurezza, cosiddetta identitaria, per usare un brutto neologismo d’obbligo. Anzi, può riservare sorprese imbarazzanti. Come raccontava Maurizio Stefanini sul «Foglio», l’albero genealogico, attraverso le sue infinite ramificazioni, gli ha fatto scoprire di essere «una miscela». Il prodotto di componenti italiane, nordafricane, greche, ebraiche, e via enumerando apporti che arrivano da lontano. C’è di che allarmare Salvini e compagni. E, per quel che mi concerne, ho rinunciato alla ricerca sui miei antenati quando venni a sapere che uno zio d’America, da parte credo materna, non solo non aveva fatto fortuna, ma si era cacciato nei guai.