Paesi grandi, scheletri grandi; paesi piccoli, scheletri piccoli. Nel regolare i conti con il passato, nessuno è innocente. Certo, le dimensioni e il grado d’implicazione pesano. Tutte le maggiori potenze marinare europee hanno partecipato alla gara per accaparrarsi e sfruttare le risorse dell’Africa, dell’India e dell’Indocina con l’avallo e l’incoraggiamento dei partiti al governo. Il colonialismo e l’imperialismo appartengono alla storia dell’Occidente, alla sua politica estera, così come le successive lotte condotte dai colonizzati per riottenere l’indipendenza. È quindi giusto osservare questi fenomeni non in un’ottica nazionale, come spesso si è fatto, ma attivando il grandangolo di una ricostruzione globale.
A lungo – per secoli, fin dalla tratta degli schiavi – questa storia è stata scritta dai vincitori. Le nazioni dominanti hanno cercato di giustificare le loro scelte ricorrendo alla nozione di «missione civilizzatrice» nei confronti di popoli rimasti allo stato primitivo. Quindi non c’era motivo, per l’uomo bianco colto e attrezzato di tecniche e di armi, di farsi scrupolo nell’assoggettare comunità di vario colore e credenza religiosa. Alcuni di questi «civilizzatori» o «benefattori» sono stati onorati al punto di guadagnare l’immortalità nelle fattezze di statue, busti, bassorilievi, targhe, lapidi. Ad imperitura memoria.
Nel secondo dopoguerra la prospettiva è invece mutata. Le lotte di liberazione dei «dannati della terra» hanno aperto gli occhi anche ai distratti. Poi sono venuti gli studiosi (storici, geografi, economisti) ad illuminare la scena con i loro attrezzi del mestiere. È così venuto a galla il mondo sommerso delle interdipendenze e degli squilibri tra gli Stati capitalistici avanzati e il terzo mondo, con le sue immense ricchezze minerarie. Nel contempo è emersa la necessità di riscrivere la storia, di osservarla non dall’alto, dallo zoccolo dei dominatori, ma dal basso, dal selciato dei dominati.
Siffatti rivolgimenti hanno comportato un ribaltamento di prospettiva, e quindi imposto un riesame del passato, di come è stato utilizzato, quali parti sono state glorificate e quali occultate. Ora nel mirino sono finiti i monumenti, l’elemento di maggior visibilità e impatto dell’arredo urbano. Ma la storia non scompare mai, rimane insonne nel subconscio dei popoli per poi riaffiorare all’improvviso, seminando scompiglio. La Svizzera ha conosciuto questi momenti alla fine del secolo scorso, con la riapertura degli armadi riguardanti le relazioni con i regimi nazifascisti. Per fare chiarezza su questo capitolo, il governo federale mise al lavoro un gruppo di ricercatori guidati dal prof. Bergier. Tuttavia la generazione che visse il periodo della mobilitazione accolse scrollando il capo i risultati delle indagini, molti preferirono coltivare il ricordo di una resistenza valorosa, priva di macchie e compromessi.
Il rapporto con il passato è sempre delicato, un terreno minato. Gesta che i nostri antenati consideravano eroiche e memorabili, possono apparire, a noi discendenti, operazioni meschine, atti di cui vergognarsi. I sentimenti variano all’alternarsi delle stagioni politiche. Nell’immaginario odierno la figura di Stefano Franscini rifulge come un santo laico, padre dell’educazione dei fanciulli e statistico eminente: nessuno oserebbe oltraggiare il monumento eretto nella piazza di Faido. Eppure anche lui fu bersaglio dei contestatori nel ’68 alla Magistrale di Locarno, il suo busto dato alle fiamme.
La storia dunque. Per molti una disciplina inutile e noiosa. Ma poi si scopre che la storia rientra dalla finestra dopo esser uscita dalla porta; che resta teatro di conflitti ideologici e di incessanti controversie, ove si intersecano e si scontrano interpretazioni divergenti, a volte opposte. Ciascun gruppo sociale ne vorrebbe una confezionata su misura, a sua immagine e somiglianza. Di qui la volontà di eternare nel bronzo o nel granito le imprese degli esponenti illustri o presunti tali. Dobbiamo allora rimuovere le statue che a nostro giudizio non meritano tale onore? No, meglio scrutarle da vicino, davanti e dietro, seguirle nei lineamenti e nelle pieghe, evidenziare luci ed ombre, descrivere l’espressività del volto, intuire le intenzioni dell’artista, studiare le ambizioni dei committenti e infine collocarle nello spirito del tempo. E se proprio non sopportiamo la loro presenza, ignoriamole pure, voltando la testa dall’altra parte.