L’ultimo tassello è il rilancio sul clima: gli Stati uniti rientrano negli accordi di Parigi, riprendono a collaborare con la comunità internazionale per combattere il riscaldamento del pianeta. Insomma, l’America ritorna nel consesso delle Nazioni, dopo i quattro anni un po’ folli di Donald Trump. E il merito è del nuovo presidente.
Riconosciamolo: un po’ tutti noi europei abbiamo guardato a Joe Biden come a un attempato gaffeur, buono per battere un leader divisivo come Donald Trump, non certo per fondare una nuova stagione. Un uomo di transizione, tra Barack Obama e Kamala Harris. Nonostante questo – o forse proprio per questo – Biden ha avuto un avvio folgorante. Ovviamente può essere discusso. Non è detto che le cose che ha fatto siano tutte giuste, ma comunque impressiona la decisione con cui si è mosso.
L’attenzione del mondo si è concentrata sul grande piano di rilancio dell’economia. Non si tratta di un cambio di rotta: già l’amministrazione repubblicana aveva messo mano alla borsa, anzi al bazooka. Quando c’è da risalire la china, l’America non ha timore di fare debito. Tuttavia Biden ha impresso un’accelerazione notevole all’intervento dello Stato nella ripresa. E non è tutto qui.
Lo sprint della campagna vaccinale. I toni duri con la Turchia di Erdogan, con la Cina di Xi Jinping con la Russia di Putin, definito addirittura «assassino». Il ritiro dall’Afghanistan, già impostato da Trump, ma reso definitivo da Biden non in un’ottica di disimpegno, di fuga dal resto del mondo, ma di dislocamento della forza là dove serve (gli Stati uniti non abbandoneranno né il Medio Oriente, né l’Ucraina pressata dai russi, né l’Africa dov’è sempre più invasiva la presenza cinese). E la proposta di un livello minimo di tassazione sulle imprese in tutti i Paesi dell’Ocse, per cancellare i paradisi fiscali, o almeno renderli meno accessibili.
Ovviamente qualsiasi bilancio è prematuro. Questo però lo possiamo dire fin da ora: se il giovane Obama fu condizionato da una cautela che inevitabilmente finì per deludere molte delle aspettative suscitate dalla sua straordinaria vicenda personale, il vecchio Biden – il presidente eletto più anziano della storia americana – si sta muovendo con una decisione che non tutti ci aspettavamo da lui, e che invano avevamo cercato in Obama. Al punto che viene spontaneo il paragone con un altro presidente considerato di transizione, non più giovane e assai navigato, che però ha impresso nella storia un segno più marcato del fascinoso John Kennedy: Lyndon Johnson. Qualcuno si è spinto a evocare papa Giovanni, annunciato come pontefice di passaggio, che invece cambiò la storia della Chiesa; ma qui il paragone appare eccessivo. Come si diceva un tempo: «Scherza con i fanti e lascia stare i santi».
Poi, certo, quando si parla di America, la Nazione più potente della terra con un Terzo mondo di esclusione e di povertà in casa, emergono sempre gravi contraddizioni: si pensi alla questione razziale, sempre pronta a riaccendersi, e non solo nell’epicentro di Minneapolis; al problema del controllo delle armi; all’enorme potere accumulato dai padroni della Rete; o alla spietatezza con cui le multinazionali del farmaco, peraltro d’intesa con Biden, hanno dato priorità agli americani – sono americane Pfizer, Johnson&Johnson, Moderna – rispetto al resto del mondo (ma noi europei cosa avremmo fatto al loro posto?). Resta il fatto che, senza le esasperazioni di Trump, Biden ha affrontato il tema dell’indipendenza produttiva e tecnologica degli Stati uniti e sta lavorando per continuare a riportare in patria pezzi di filiera industriale.
Tutto questo cosa insegna a chi americano non è, ma dall’America non può prescindere? Che il centrismo non è morto. Che un leader e un Paese non sono costretti a scegliere tra gli estremisti del sovranismo, tipo Donald Trump e Steve Bannon ma anche Orban e Le Pen, e i radicali della vecchia o nuova sinistra, vedi Corbyn e Ocasio-Cortez. Che lo scontro, in un’America mai così polarizzata, può essere ricondotto alla dialettica tradizionale della politica e delle istituzioni. Inoltre dietro il volto di Biden traspare il dinamismo del sistema americano. Che ha retto all’impatto del trumpismo. Che ha dimostrato di avere anticorpi formidabili. Che conferma la propria forza inclusiva.
Per quale motivo, nonostante l’ascesa della Cina e dell’India, nonostante la spregiudicatezza dell’immensa Russia e delle autocrazie regionali, nonostante le potenzialità dell’Europa, se c’è una scoperta scientifica, un’innovazione tecnologica, una moda culturale – si pensi alla rivoluzione dell’entertainment con Netflix, Amazon, lo streaming – viene sempre e comunque dagli Stati uniti? Perché è un Paese attrattivo, dove gli stranieri colti e preparati trovano il modo di entrare ed essere valorizzati, dove le minoranze – nonostante gli insopportabili eccessi ideologici della cancel culture – possono dare il meglio di loro stesse. In una parola, perché l’America è una democrazia.
E questa democrazia, dopo la stagione tormentata di Trump, ha saputo scegliersi un nuovo leader. Magari destinato a deludere, come quasi tutte le leadership politiche, in un tempo in cui la politica non sembra più contare molto e dà l’impressione di non incidere sulla realtà. Ma un leader che ha avuto senz’altro un avvio superiore alle aspettative.
Le sorprese di Biden e il centrismo che non muore
/ 26.04.2021
di Aldo Cazzullo
di Aldo Cazzullo