L’esplosione della diga di Nova Kakhovka, che ha provocato la scorsa settimana migliaia di sfollati in Ucraina, richiama tristemente alla mente altre dighe in tempo di pace. Al confine tra Friuli e Veneto, sessant’anni fa, il 9 ottobre 1963, una frana mostruosa precipitava dal Monte Toc nel bacino alpino formato dalla diga del Vajont, allora la più alta del mondo: nel precipitare dentro l’invaso, la frana sollevò un’onda che scavalcò la diga e in 20 secondi cancellò cinque paesi della valle, tra cui Longarone, e uccise 1917 persone. Erano le 22.39 e i televisori nei bar e nei circoli erano accesi sulla partita di Coppa Campioni tra Real Madrid e Glasgow Rangers. Il Real stravinse 6-0 con una tripletta di Puskas (5½).
Il disastro del Vajont è entrato nella storia non solo per il numero delle vittime e per l’enormità della massa rocciosa che si staccò dalla montagna (una porzione di oltre 270 milioni di metri cubi di roccia e terra). Quella catastrofe è rimasta famosa per le colpe che furono all’origine della strage. Pochi ricordano che una giornalista, Tina Merlin (6+ alla memoria), aveva previsto tutto sin dal 1959. Merlin era nata a Trichiana (Belluno) nel 1926, era stata staffetta partigiana nella sua zona e dal 1951 al 1967 fu corrispondente locale dell’«Unità», il quotidiano del Partito comunista. Quattro anni prima del disastro del Vajont, dando voce agli abitanti di Erto e Casso, cominciò a denunciare le condizioni di pericolo dei luoghi in cui era stata progettata la diga. Per quegli articoli, querelata dal presidente della SADE, l’azienda costruttrice, Tina Merlin fu processata dal tribunale di Milano per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico». Venne assolta, ma rimase inascoltata e la diga fu eretta nonostante gli allarmi ripetuti sulla fragilità della montagna e sui movimenti rocciosi.
I rapporti fiduciari del ministero dei lavori pubblici con la SADE non prevedevano controlli ma solo contributi: l’azienda privata prima procedeva e poi chiedeva (e otteneva) le autorizzazioni governative. Le piccole frane e le lievi scosse erano all’ordine del giorno e tutti lo sapevano. Durante i successivi collaudi, persino il progettista Carlo Semenza cominciò a dubitare di sé, specie da quando suo figlio Edoardo, giovane geologo chiamato a esaminare la zona, diede parere negativo sulla solidità della montagna.
È una storia lunga, anche quella processuale, ricostruita dalla stessa Merlin in un libro, Sulla pelle viva, che fece fatica a trovare un editore e lo trovò solo nel 1983, grazie al semiclandestino La Pietra (oggi lo si trova in Cierre). Una storia penosa che Marco Paolini ha raccontato magistralmente in un’orazione civile (6-), che nel 1997 tenne inchiodati per tre ore al video tre milioni e mezzo di italiani: «Un esempio di tv povera, ma ricca di contenuti e di emozioni», la definì Aldo Grasso. Fatto sta che bisognerebbe rievocare non solo gli eventi ma le reazioni agli eventi. Quelle della stampa, nei giorni della catastrofe, non furono prove esemplari, se si eccettua la stessa Merlin che l’indomani uscì sull’«Unità» con un incipit sconvolgente: «È stato un genocidio. Lo gridano pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore della valanga d’acqua e dalla disperazione di trovarsi soli e impotenti a superare una realtà tragica, fatta ormai di nulla, o meglio fatta di sassi e melma amalgamati al sangue dei loro cari» (di nuovo 6+).
Il bellunese Dino Buzzati (3+), sul «Corriere della Sera», attribuì tutte le responsabilità alla «natura crudele»: nessuna colpa ai progettisti e alla diga, un’opera d’arte che aveva retto mirabilmente all’urto della frana: «È il monte che si è rotto», scriveva, senza pensare che proprio perché la roccia era fragile, quell’incantevole monumento alla scienza non andava costruito. E anche Giorgio Bocca (3), inviato del «Giorno», il quotidiano dell’Eni fondato da Mattei, ignorò gli allarmi precedenti: «In tempi atomici, si potrebbe dire che questa è una sciagura “pulita”, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva, ma indifferente». E proseguiva: «nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare». Peccato che qualcuno aveva già previsto. Altro che «pulita». Sciagura sporca. Sporca anche quella di oggi in Ucraina. Diversamente sporca, ma sporca.