Passeggiando sul lungolago, all’altezza del Jardin Anglais, avvisto la prima delle due Pierres du Niton (373,6 m), tre gabbiani sono posati sopra, sullo sfondo il Jet d’eau schizza alto nel cielo a pecorelle. Le Pierres du Niton sono due massi erratici che emergono nella rada di Ginevra: quello più al largo, appena avvistato, tuttora ben visibile mentre cammino e un tempo utilizzato come altare sacrificale, è il punto di origine di tutte le misurazioni altimetriche della Svizzera. Chiamati comunemente entrambi con lo stesso nome, i due blocchi di granito provenienti dal Monte Bianco che da lontano potrebbero sembrare cetacei risaliti a galla, in realtà hanno nomi diversi. Quello più verso riva, dalla forma trapezoidale che si vede adesso benissimo, dal molo di Eaux-Vives, si chiama Pierre Dyolin. Mentre solo l’altra laggiù è la Pierre du Niton, punto di partenza di tutta la cartografia svizzera. Scelta nel 1820 da Guillaume Henri Dufour (1787-1875), ingegnere cantonale ginevrino e generale dell’esercito al quale ogni città o cittadina elvetica ha dedicato una strada. In un primo tempo come riferimento riguardo alle misurazioni del livello del lago per via di alcune diatribe con il canton Vaud, poi come orizzonte per la famosa carta in scala 1:100 000 che prende il suo nome. La carta Dufour, prima opera cartografica ufficiale elvetica iniziata verso il 1832, incisa su rame, è esposta persino a Palazzo federale.
In verità, in barba a tutta la topografia nazionale e al suo punto di riferimento geodetico, un vecchio lupo di lago, seduto in fondo al Café du Jura, bistrò-biotopo sopravvissuto alla moria di tutti gli altri postacci memorabili di Eaux-Vives, una sera mi raccontò che le Pierres du Niton galleggiano. «Îles flottantes» mi disse, riprendendo, al plurale, il nome del famoso dessert demodé dichiarandone perciò la loro più totale inaffidabilità, quantomeno nel ramo dell’altimetria. Una storia, certo, ma l’unica è toccare con mano. E appoggiando la mano alla superficie ruvida di granito porfirico foliato, a tratti scivolosa per via del guano inumidito dei loro ospiti fissi volatili, la Pierre du Niton non si muove. Mi sono tuffato dall’imbarcadero delle mouettes, le barchette che fanno la spola con la sponda opposta e passano, ogni dieci minuti, proprio accanto alle Pierres du Niton. Già che ci sono, dopo aver verificato che il masso erratico lungo ventotto piedi tocchi sul serio il fondo del lago, aggrappandomi a una catena mi ci arrampico su. Per accarezzare, così, tanto per, un tardo pomeriggio verso metà luglio, il sigillo di bronzo ottocentesco sul quale qualcuno ha scarabocchiato, graffiandola, la parola cacahuetes. Un disco largo due pollici legato alla prima misurazione ipsometrica, 376,6 metri sul livello del mare, poi mutata nel 1902 in quella attuale, stabilita con il mareografo di Marsiglia, di tre metri di meno. Trovo anche la coppella e percorro, così per sport, con i polpastrelli, il perimetro rettangolare di questo bacino profondo venti centimetri.
Qui sotto, nel 1660, sono stati riportati a galla, due asce di rame, usate, dicono, per i sacrifici umani in onore delle divinità lacustri. Burkhard Reber, farmacista specialista di epigrafi, numismatica e archeologia, sul «Bulletin de la société préhistorique française» apparso nel luglio 1915, sostiene che le Pierres du Niton, chiamate anche «à Nyton o Neyton», hanno servito come altare alla divinità celtica Neithe, equiparata in seguito al Nettuno romano. Tra l’altro, attraccata tra i due erratici lacuali, distanti settantacinque metri, c’è la Neptune. Una barca a vela latina costruita da ingegneri nizzardi in un cantiere navale a Meillerie, in Alta Savoia, nel 1904. A poche bracciate dalla Neptune, spunta la Pierre Dyolin che è quasi più sacrificale e balenesca. A fatica, attaccandomi a un anello arrugginito, conquisto la vetta piatta dell’isolotto e mi sdraio sopra pancia all’aria.
Qualcuno dice che sia stata lasciata qui da un ghiacciaio diciottomila anni fa circa. Giocando a rimbalzello sul Lemano, secondo una leggenda, il gigante Gargantua sarebbe invece all’origine delle «Pierres du nichon». Così le chiamava involontariamente, per confusione, il mio ex vicino di casa – un sedicente cantautore folk inglese rovinato da alcol, droghe, psicofarmaci, poker e lasagne surgelate – quando abitavo non lontano da qui, là in fondo a rue du 31 Décembre. Eppure nichon, tette in italiano, non è così fuori luogo e qualcuno potrebbe immaginarsi una dea gigante sommersa. Il loro vero ruolo magico, emozionale, però, per me, rimane quello svolto apparendo nella Pesca miracolosa (1444) di Konrad Witz: pietra miliare della storia dell’arte. Dipinto come pala d’altare per la cattedrale Saint Pierre, salvatosi miracolosamente dall’iconoclastia calvinista e conservato al Musée d’art e d’histoire qui di Ginevra, la Pesca miracolosa è considerata la prima rappresentazione di un paesaggio riconoscibile. Proprio le Pierres du Niton – oltre al Monte Bianco eternamente innevato che giganteggia come miraggio sullo sfondo – inquadrate da riva, verso la fine del Jardin Anglais e l’inizio del quai Gustave-Ador che percorro ora piano piano, sono un indizio chiave per localizzare con esattezza il posto dov’è ambientata la scena.