Le due generazioni che hanno pagato il prezzo più alto alla pandemia sono state quella degli anziani e quella dei giovani. Dico anziani, e non nonni, anche se a volte tendiamo (me compreso) a chiamare genericamente nonni signori che magari nonni non sono diventati o, in ogni caso, sono nonni soltanto dei loro nipoti. Nonno è una parola dolcissima, come lo è l’amore a cerchio di vita tra le generazioni. Però è una parola privata, o comunque intima. Ci sono persone che amano essere chiamate così, altre che restano indifferenti, altre che ne sono infastidite. Nel linguaggio delle burocrazie, e più in generale in quello della discussione pubblica, si dovrebbe forse essere più cauti. Perché il rischio è quello di edulcorare, con un termine consolatorio, una condizione esistenziale che può essere senz’altro ricca o almeno serena, ma anche amara e angosciante.
Dicevamo che anziani e giovani pagano il prezzo più alto. Ma se per gli adolescenti e i ventenni si tratta di fare qualche rinuncia, per quanto frustrante e dolorosa, per gli anziani significa dover temere una morte orribile, separati dai propri cari. Anche per chi sta bene, l’attesa di essere chiamato per i vaccini è stressante: sarebbe necessario e opportuno indicare almeno una data per la convocazione. L’incertezza di questi giorni certamente non aiuta. Oltretutto gli anziani hanno spesso problemi di salute di altro genere, che con gli ospedali intasati vengono trascurati. L’unica risposta è mettere ordine nelle opinioni, nelle cifre contraddittorie e accelerare la campagna di immunizzazione. Magari così ci meriteremo il diritto di chiamarli, se vorranno, nonni.
In ogni caso, a me le scene degli anziani che vanno a vaccinarsi piacciono moltissimo, e non solo perché vedo in loro i miei genitori, che hanno entrambi più di ottant’anni, e rivedo i miei nonni di quando ero bambino. Mi piace moltissimo il loro amore per la vita, la loro fiducia nella scienza, la loro speranza nel futuro. Ho adorato una signora che con un bell’accento milanese ha detto con orgoglio alle telecamere: «Ho centodue anni!». Ho trovato elegantissima Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz, quando ha abbassato la spallina del suo bel vestito nero per farsi vaccinare. Che pena profonda per quelli che l’hanno insultata. Poverini, devono essere molto infelici, perché non è per Liliana Segre, è per se stessi che non hanno rispetto.
Molti ottantenni hanno visto andarsene i compagni di una vita, senza poter dire loro addio. Qualcuno non ce l’ha fatta, qualcuno ha sconfitto la Covid, tanti l’hanno evitata ma a prezzo di grandi sacrifici: chiudersi in casa, evitare di vedere figli e nipoti, rinunciare ad andare in chiesa. Certo, anche i giovani hanno sofferto, e avendo più dosi a disposizione sarebbe stato giusto iniziare le vaccinazioni in entrambi i sensi, partendo sia dal più grande sia dal più piccolo. Come quando si scava un tunnel o si costruisce un ponte, e le due squadre cominciano a muoversi contemporaneamente da entrambe le parti. I giovani non ne possono più, e per qualche imbecille che si dà appuntamento nei parchi pubblici per picchiarsi e mettere in Rete le sue imprese ce ne sono milioni che non vedono l’ora di ripartire. Ma in quelle code di anziani che ne hanno viste di tutti i colori, e ora devono confrontarsi pure con la Covid senza volergliela dare vinta, vediamo l’irriducibilità della vita.
A difesa dei più giovani va ricordato che in mezza Europa le scuole sono state a lungo chiuse. Gli adolescenti hanno sicuramente perso qualcosa sia in termini di apprendimento – per quanto molti professori abbiano fatto miracoli per continuare a insegnare online – sia in termini di socialità. E i loro fratelli maggiori, i ventenni, hanno perso contatto con l’università e faticano a prendere contatto con le aziende, visto che non hanno potuto fare stage o esperienze di lavoro.
Il «Recovery plan» europeo dovrebbe pensare innanzitutto ai giovani. Purtroppo non mi pare che il loro ingresso nel mondo del lavoro sia considerata una priorità. Vi racconto un fatto che mi è accaduto: in Italia sono stato additato sui social come un affamatore del popolo per aver proposto un piano per consentire ai neodiplomati e ai neolaureati di fare esperienze di lavoro nelle aziende e nelle pubbliche amministrazioni. Si tratta ovviamente di intendersi sul significato della parola stage: se si tratta di un periodo di apprendistato, di un’occasione per imparare offerta a una persona che non ha mai lavorato, è un po’ difficile attendersi uno stipendio pieno. Se invece, come accade purtroppo spesso, lo stage magari rinnovato più volte è un escamotage per far lavorare gratis o quasi persone già formate, è una forma di sfruttamento ovviamente da denunciare. Ma per cortesia non pensiamo che il problema dei giovani siano gli «apericena» o gli «happy hour» perché questo significa fare la caricatura della condizione giovanile oggi in Europa, specie in Italia. Che era già molto difficile prima della pandemia e ora rischia di farsi drammatica per mancanza di opportunità.
Le opportunità e l’irriducibilità della vita
/ 29.03.2021
di Aldo Cazzullo
di Aldo Cazzullo