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Le nuove povertà/7

/ 13.07.2020
di Lidia Ravera

Non finì nel solito modo, l’incidente di quella sera. Betta non pianse, Tom non la consolò, non fecero l’amore. Restarono distesi, uno accanto all’altra, mentre il buio si assottigliava fino a insediare nella stanza (nessuno aveva pensato a chiudere gli scuri) il chiarore lattiginoso dell’alba.

Era già mattino quando un appesantirsi impercettibile del respiro di Betta avvisò Tom che, almeno lei, era riuscita ad addormentarsi. Ne provò un fastidio irrazionale, come se quella resa alla stanchezza collocasse la sua donna in una provincia di gente rozza e senza cuore. Cercò di scacciare l’immagine di un bar gremito di uomini soli che si davano di gomito uno con l’altro e allungavano verso Betta sguardi pieni di libidine.

Era la scena ossessionante che gli aveva impedito di prendere sonno. Si alzò.

Preparando il caffè si concesse tutto il rumore necessario e anche qualche punta di superfluo, l’appartamento era talmente piccolo che disturbare il sonno di Betta, in un’altra circostanza, sarebbe stato perdonato come inevitabile. Adesso no. Non dopo quello schiaffo, quell’amore mancato, quella dichiarazione di guerra.

Com’era? Ho rimorchiato un uomo in un bar. Non si dice. Non si deve dire. Dirlo è una provocazione e più ancora dire che ti ha pagato la cena. E che la cena era buona.

Tom sentì montare una collera a cui non era in grado di imporre uno sbocco non violento. «Uno schiaffo è poco, dovevo ammazzarti di botte», mormorò, guardando il lungo corpo nudo di sua moglie. La coperta era scivolata di lato.

Tom pensò che certamente aveva freddo, dato che non si era messa il pigiama.

La coprì, istintivamente. E quel gesto paterno gli fece sentire pena per se stesso. Gli si riempirono gli occhi di lacrime. Uscì precipitosamente.

Senza essersi lavato, senza calzini, dopo aver indossato gli stessi pantaloni della sera prima, la stessa camicia e lo stesso maglione. Pensò di andare a prendere Sara a scuola, era quasi mezzogiorno, poi si ricordò che era domenica e che probabilmente Sara era andata in weekend a Capalbio con i genitori di Maddalena Vattelapesca, una coppia di giornalisti voraci e mondani che posavano a animebelle, smistavano migranti fra le case degli amici e ovviamente non avevano mai avuto mezzo problema economico.

Probabilmente sarebbe arrivata la sera tardi, piena di confronti fra la loro vita e la vita dei genitori della sua amica. Avevano una casa su due piani a Roma, avevano un casale del 600 in campagna, tutto di pietra e l’anno prossimo avrebbero scavato una piscina, se arrivavano i permessi. Ma i permessi sarebbero arrivati perché il padre, il signor Vattelapesca, era un giornalista importante, un polemista senza macchia e nessuno voleva avercelo contro. L’immagine della piscina nel centro del giardino fiorito di un casale del 600, in Maremma, sostituì degnamente quella degli uomini libidinosi nel bar affollato. Ma questa volta le lacrime non vennero.

Tom si sentì pervadere da una specie di debolezza mista a rabbia. Una miscela spossante. Sedette su una panchina. Chiuse gli occhi. Un capogiro molto opportuno gli ricordò che non aveva cenato e non aveva fatto colazione. Provò a sentirsi malato. Pensò che sarebbe stato meglio, un bel cancro al cervello e via, tutti parlano bene di te. Restò con gli occhi chiusi cercando sintomi di labirintite. Sentì soltanto il suo stomaco gorgogliare per il vuoto. Qualcuno si era seduto sulla panchina vicino a lui. Aprì gli occhi quel tanto che bastava per accorgersi che era un vecchio. Si spostò verso il margine estremo, senza che ce ne fosse alcun bisogno. Il vecchio era marcatamente elegante, e lo guardava senza ritegno. Tom tirò fuori il cellulare e incominciò a digitare messaggi, per autodifesa. Scrisse a Nicola:

«crisi verticale con stronzissima Betta.Urge divano». Scrisse a Barbara, che era stata aiutoregista con Bertolucci e conosceva tutti e aveva promesso di aiutarlo.

«Desolato disturbarti bella ragazza, solo una domanda: hai parlato del mio progetto a quel produttore svizzero carico di soldi?». Con più sforzo, stringendo i denti, scrisse a sua madre: «Se vengo a pranzo da te senza preavviso mi cacci o mi sfami?» Controllò le spunte. Erano tutte azzurre. Si accinse ad aspettare le risposte, ma non voleva fissare lo schermo del suo smartphone, era un gesto da sfigato. Alzò gli occhi come chi sa godere del paesaggio e vide che il vecchio lo stava ancora fissando. «Ci conosciamo?», chiese con il tono giusto per litigare. «No, ma credo di conoscere la sua giovane moglie», disse il vecchio.

Con un sorriso.

(Continua)