Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione».
Von Arnim valutò l’ipotesi di ritirarsi, non aveva voglia di ingaggiare uno di quei duelli ormai esangui che in altri tempi erano riusciti a farlo sentire impegnato a vivere, come se vivere fosse un’occupazione, la sua occupazione, che diventava un hobby quando ne parlava con Fanny
Gli pareva, allora, di muovere le pedine su una scacchiera immaginaria e commentare con lei le ricadute dei suoi atti lo aiutava a prendersi sul serio.
Dava corpo ai suoi fantasmi e per questo l’aveva sposata e per questo, poi, l’aveva lasciata.
«Non battere in ritirata, pusillanime, non abbiamo ancora incominciato a confessare le tue colpe».
«Incominciamo dalle tue. È stata tua l’idea di darle quei maledetti 500 euro».
«E tu sei stato così stupido da dirglielo, che era stata un’idea mia. Non riesci a pensarmi morta neanche per gioco».
Von Arnim annuì.
Non aveva voglia di parlare.
La luce bassa, il bagliore del fuoco, il rantolo che graffiava il respiro corto della donna grassa seduta accanto a lui, davanti al camino.
Il sibilo del vento fuori dalla baita. Gli ululati lontani.
La tosse, che partiva in crescendo, diminuiva, poi come un tema musicale, ritornava.
Tutto gli pareva precario, temporaneo, vulnerabile.
E giustificava quel silenzio che, fra loro, non avevano mai sperimentato. Avevano vissuto aggrappati alle battute di un dialogo saccente e onnipotente.
Avevano sommerso o salvato, sminuito o incensato tutte le donne che avevano nutrito il loro appetito: le giovani amanti di Von Arnim, le amanti belle di Fanny.
Su quella complicità di peccatori, su un senso di superiorità che non si erano mai abbassati a verificare, si era edificato il loro lungo matrimonio.
E sui soldi, naturalmente, anche se nessuno dei due era disposto a dar peso a un dato tanto ovvio.
E in fondo volgare.
Quando si erano conosciuti Fanny posava nuda, a Venezia, davanti agli studenti di una scuola d’arte per mille lire al giorno. Aveva sempre freddo, aveva sempre fame. Ma non aveva nessuna intenzione di tornare a casa, la casa da cui era scappata di notte, dopo aver confessato a sua madre e a suo padre che non avrebbe sposato nessuno, né il ragazzo che piaceva a loro né il ragazzo che fingeva di preferire al ragazzo che piaceva a loro, perché a lei non piacevano gli uomini.
Lei amava le donne.
La frase, migliaia di volte ripetuta in quel delicato delirio di autoassoluzione che è il racconto del proprio passato, era «Sono una troia lesbica, mamma. Lesbica e troia».
Aveva 19 anni.
Lasciava una famiglia benestante da generazioni, una dinastia di notai e avvocati, educatamente fascisti, gretti e intolleranti, che l’avevano cancellata con l’estremismo ideologico che connotava l’epoca.
Era il 1960, Fanny non era ancora maggiorenne, perché la maggiore età si raggiungeva a ventun anni, ma nessuno, nella famiglia abbandonata, aveva mosso la legge per recuperare la pecora nera.
Von Arnim l’aveva salvata dall’arresto in un gelido martedì di febbraio, mentre usciva da un ristorante costoso senza aver pagato il conto.
Non era la prima volta.
L’aveva già fatto in altri ristoranti, la voce si era diffusa in tutta la città.
La mano guantata del maître le aveva afferrato la spalla, a pochi metri dall’uscita.
Von Arnim aveva seguito la scena dalla vetrata e si era precipitato fuori per dichiarare, con un certo divertito sussiego: «La signorina è con me».
Erano rientrati insieme, si erano seduti al tavolo da cui lui si era alzato per correre a proteggerla. Von Arnim aveva fatto aggiungere un coperto. Avevano ordinato il dessert. E un cognac per finire.
Avevano criticato il cognac e ne avevano voluto provare un altro.
Avevano ordinato al maître di scaldare il calice con la mano.
Quello che l’aveva incantato di Fanny, e che adesso affiorava con la dolorosa tenerezza che affligge i vecchi, era la spietata naturalezza.
L’assenza assoluta di vergogna, di spiegazioni, di disagio.
Non l’aveva neppure ringraziato.
(38 – Continua)