Si inchiodavano, ridendo, ciascuno al suo destino.
Poi incominciavano a giocare a scacchi, o ad ascoltare musica, o a guardare un film, con l’obbiettivo di smettere di parlare.
Non quella sera.
Von Arnim era inquieto e Fanny decise di fare il primo passo.
«Allora? La bella Betta andrà alla festa o hai ritirato l’invito? Se sei arrivato fin qui deve essersi sciupato qualcosa nel tuo parco giochi».
«No, perchè?»
Appena ebbe pronunciato quelle due parolette bugiarde, se ne pentì.
Con un lungo a solo della sua tosse secca, Fanny gli diede il tempo di rimediare.
«La festa è fra 15 giorni. Ma non insisterò perchè partecipi. Sono molto opportunamente sparito e va bene così».
Fanny si agitò sulla poltrona, che la conteneva a stento.
La sua risata risuonò artificiosa.
E fu come un segnale.
Erano finiti i convenevoli, iniziava la partita delle piccole verità, un lavoro di scavo che Fanny aveva sempre fatto coincidere con l’amicizia.
«D’accordo, vorrei portarla alla festa, presentarle Martin, vorrei che Martin la facesse sentire al centro delle attenzioni di un regista famoso. Lui sa farlo, è abbastanza infelice per mantenere un paio di canali aperti alla comunicazione con il mondo reale».
«Altrettanto spero di te».
«Senti chi parla, la regina delle nevi».
«Il fatto che tu vada in giro innamorandoti di questa e di quella non fa di te uno che si muove nel mondo reale. È sempre a te stesso che fai la corte».
«Amen».
Von Arnim valutò l’ipotesi di ritirarsi, non aveva voglia di ingaggiare uno di quei duelli ormai esangui che in altri tempi erano riusciti a farlo sentire impegnato a vivere, come se vivere fosse un’occupazione, la sua occupazione, che diventava un hobby quando ne parlava con Fanny.
Gli pareva, allora, di muovere le pedine su una scacchiera immaginaria e commentare con lei le ricadute dei suoi atti lo aiutava a prendersi sul serio.
Dava corpo ai suoi fantasmi e per questo l’aveva sposata e per questo, poi, l’aveva lasciata.
«Non battere in ritirata, pusillanime, non abbiamo ancora incominciato a confessare le tue colpe».
«Incominciamo dalle tue. È stata tua l’idea di darle quei maledetti 500 euro».
«E tu sei stato così stupido da dirglielo, che era stata un’idea mia. Non riesci a pensarmi morta neanche per gioco».
Won Arnim annuì.
Non aveva voglia di parlare.
La luce bassa, il bagliore del fuoco, il rantolo che graffiava il respiro corto della donna grassa seduta accanto a lui, davanti al camino.
Il sibilo del vento fuori dalla baita. Gli ululati lontani.
La tosse, che partiva in crescendo, diminuiva, poi come un tema musicale, ritornava.
Tutto gli pareva precario, temporaneo, vulnerabile.
Quando si erano conosciuti Fanny posava nuda, a Venezia, davanti agli studenti di una scuola d’arte per mille lire al giorno. Aveva sempre freddo, aveva sempre fame.
Ma non aveva nessuna intenzione di tornare a casa, la casa da cui era scappata di notte, dopo aver confessato a sua madre e a suo padre che non avrebbe sposato nessuno, né il ragazzo che piaceva a loro né il ragazzo che fingeva di preferire al ragazzo che piaceva a loro, perché a lei non piacevano gli uomini.
Lei amava le donne.
La frase, migliaia di volte ripetuta in quel delicato delirio di autoassoluzione che è il racconto del proprio passato, era: «Sono una troia lesbica, mamma. Lesbica e troia».
Aveva 19 anni.
Lasciava una famiglia benestante da generazioni, una dinastia di notai e avvocati, educatamente fascisti che l’avevano cancellata con l’estremismo ideologico che connotava l’epoca.
Era il 1960, Fanny non era ancora maggiorenne, ma nessuno, nella famiglia abbandonata, aveva mosso la legge per recuperare la pecora nera.
Von Arnim l’aveva salvata dall’arresto in un gelido martedì di febbraio, mentre usciva da un ristorante costoso senza aver pagato il conto.
Non era la prima volta.
L’aveva già fatto in altri ristoranti, la voce si era diffusa.
La mano guantata del maître le aveva afferrato la spalla, pochi metri dopo dall’uscita.
Von Arnim aveva seguito la scena dalla vetrata e si era precipitato fuori per dichiarare, con un certo divertito sussiego: «La signorina è con me».
(37 – Continua)