Le nuove povertà/36

/ 10.04.2023
di Lidia Ravera

La luce, il profumo della legna, il calore.

Fanny abbracciò prima Thomas e con maggiore trasporto, faceva parte di un rituale a cui teneva molto, quella ostentata predilezione per la persona che si occupava di Von Arnim e che, nella sua esistenza rarefatta, rappresentava «il popolo».

Il sottotesto era sempre lo stesso: tu che hai bisogno del maggiordomo, la tua vita di grande borghese, tu che hai bisogno di un badante, la tua vecchiaia di pusillanime.

Non si vedevano da due anni, ma Fanny non era cambiata: la pelle tesa delle donne grasse, arrossata quasi fosse appena tornata da una corsa al freddo, era illuminata da due occhi di taglio orientale, verdi come cocci di vetro, ironici e duri.

Si era truccata accuratamente ciglia e palpebre, l’ampia tunica di velluto nero occultava ed esaltava la scomparsa del suo corpo. Non indossava mai altro che quelle tuniche, erano lunghe ed erano larghe e si trasformavano, con il suo incedere lento, in un manto regale.

Von Arnim si sentì felice d’essere lì. Chissà quanti altri incontri restavano da vivere a entrambi. Fanny aveva due anni meno di lui, ma la sua salute non era altrettanto buona. Non se ne doveva parlare, naturalmente. Era una forma terminale di civetteria quell’apparente disprezzo per lo stato dei suoi organi interni. Il polmone ridotto chirurgicamente di proporzioni, per combattere un enfisema che non l’aveva fatta smettere di fumare, non andava nominato, ma la tosse secca, simile al prolungato frullo di piatti di un virtuoso della batteria, quella la esibiva senza provare a soffocarla, anzi, con un certo gusto.

Le piaceva scorgere nello sguardo di Von Arnim un lampo subito represso di preoccupazione per lei.

Le piaceva che lui fosse lì, seduto davanti al fuoco, che avesse apprezzato la polenta con i funghi porcini, bevuto Brunello di Montalcino Riserva Case Basse (755 euro la bottiglia), che stesse sorseggiando, gli occhi socchiusi per gustare senza essere distratto da altri sensi, un cognac Hennessy Ellipse dal vago sapore di rosa selvatica.

Le piaceva accendersi davanti a lui, uno dei suoi sigari panciuti. Così densi nel fumo da competere con la legna che bruciava nel camino.

Non sapeva in preda a quale dispiacere il suo antico marito aveva percorso i 688 chilometri che li separavano ormai da 14 anni, per confessare quale sconfitta si era arrampicato su per la montagna (2250 metri sul livello del mare) fino alla Baita. A cena non avevano messo mano ad altro che a quella schiuma di superficie che caratterizza la conversazione dei vecchi: il resoconto ciascuno delle sue idiosincrasie, illuminato da qualche spiegazione intelligente che l’uno porgeva all’altra come scegliendola da un vassoio di prelibatezze.

In genere, a quel livore per così dire sociologico, faceva seguito la disamina divertita ciascuno dei vizi dell’altro.

Lui accusava lei di essersi nascosta agli occhi del mondo dal giorno in cui lo specchio le aveva rimandato l’immagine di una donna di settant’anni. Le carni allentate nell’adipe, la schiena incurvata dalla cifosi, la rarefazione di quel piumaggio sensuale che ornava il sesso, le ascelle e il cranio delle donne.

Non aveva saputo virilizzarsi, operazione necessaria quando la tua carriera di femmina volge al termine. Aveva preferito scomparire che cambiare genere.

Non era fluida, lei.

Era una donna che amava essere amata dalle donne.

E non aveva ancora smesso il lutto per la grazia perduta.

Aveva buttato via tutte le fotografie che la ritraevano al tempo della sua bellezza.

Compreso il servizio che un rotocalco d’epoca aveva dedicato al loro matrimonio. (Su un’isola minuscola, nell’Oceano Indiano, comprata e poi rivenduta, perdendoci parecchio).

Lei accusava lui di non saper fare a meno di specchiarsi negli occhi di qualunque imbecille pur di recuperare un’immagine di sé che non aveva mai imparato a fornirsi da solo.

Lo accusava di giocare continuamente, e se quest’attitudine era divertente fino a quando era stato il ritratto vivente del privilegio (maschio bianco nobile ricco intelligente e gentile) oggi, che la «livella» aveva spinto anche lui verso il gran boulevard del fine vita, era ridicolo come un Peter Pan all’ospizio.

Si inchiodavano, ridendo, ciascuno al suo destino.

(36 – Continua)