Il piacere viene a noia prima di qualsiasi altra esperienza umana. E allora devi alzare la posta, si tratti di cocaina di sesso di cibo o di qualsiasi altra passione terrena o religiosa, compresa l’estasi mistica, se non sei in grado di sostituire, ad un certo punto, il piacere vecchio con un piacere nuovo, ti tocca aumentare la dose del piacere vecchio.
Rischioso: se assunta in quantità eccessiva, ogni gioia è una droga, di questo era certo.
E questa era la ragione per cui era sparito con la piccola Betta.
L’aver percepito l’imprevedibile senso di vuoto che quella parziale disintossicazione gli era costata, era la ragione per cui stava viaggiando in direzione dell’eremo dove si era ritirata Fanny.
La strada saliva ripida e piccoli cumuli grigi di neve ghiacciata orlavano l’asfalto lucido di umidità.
La luce era crollata di colpo, oscurando il fianco della montagna, mentre la cima affondava in un cappuccio di nebbia.
Won Arnim rabbrividì.
«Ci vorrebbe qualcosa di forte, il crepuscolo fra i monti è lucubre».
«Apri bracciolo, signor Paolo. La trovi qualcosa di forte».
Won Arnim aprì il cassetto contenuto nel bracciolo che divideva in due il sedile posteriore: c’erano dodici bottigliette bonsai, ordinate e intonse.
Ne prese una, senza scegliere, e bevve due profonde sorsate.
Vide che Thomas lo stava osservando dallo specchietto retrovisore e alzò il liquore in direzione della sua nuca, come per dedicargli un brindisi.
«Vuoi essere così gentile da avvisare Fanny che stiamo arrivando? Vorrà sicuramente cambiare palandrana e truccare al meglio quegli occhi da strega per il mio arrivo. Non le va di essere colta di sorpresa».
Thomas obbedì e il telefono squillò a vuoto.
Won Arnim sospirò, come un padre abituato alle intemperanze di una figlia adolescente.
Poi disse.
«D’accordo, non importa, non oserà buttarmi fuori. Sa che soffro il freddo».
Thomas sorrise.
«Ne vuoi un sorso?», chiese Von Arnim, finendo la bottiglietta. «C’è un intero bar, qua dentro. Bourbon vodka grappa Southern confort gin… Tu lo sai chi l’ha fornito questo campionario di veleni? Non io… a meno che non abbia incominciato a dimenticare i miei crimini…»
«Signora Fanny», disse Thomas.
«L’ha fatto quando l’hai riaccompagnata al suo eremo, l’ultima volta che è scesa a valle, quando è stato… sei mesi fa, sette?»
«No sei mesi, due anni. Signora Fanny mi ha dato soldi e lista. Poi ha detto: metti le bottiglie in macchina soltanto quando signor Paolo viene a trovarmi in montagna. Soltanto quando viene da me».
«E tu hai obbedito?»
«Chiesto giuramento».
«E per due anni questo minibar è rimasto in garage. Quella donna è micidiale».
Thomas annuì, incerto sul significato dell’aggettivo e accelerò leggermente.
La strada si stava coprendo d’un invisibile foglia di ghiaccio, saliva più ripida, con curve profonde e strette, incastrata com’era fra i fianchi di due montagne ugualmente minacciose.
Attraversarono il Paese di Comelico e la frazione di Padola.
Poi si lasciarono alle spalle gli ultimi tetti sfarinati di neve e continuarono fino alla fine della strada e poi del viottolo in cui si era trasformata, le tracce degli pneumatici incise nel fango.
Il bianco si era insediato, compatto e severo, su quello che d’estate era un prato verdissimo e freddo. La baita era ingabbiata in un cono d’ombra, ai piedi di una parete scura di pini che le razionava la luce del sole, conservando il ghiaccio fino a primavera inoltrata. Ghiaccio, candore, buio. Un inverno quasi perenne. E le orme degli animali a illustrare il tipo di solitudine che Fanny aveva scelto.
Volpi lupi stambecchi.
La Mercedes si fermò che La Baita era già visibile, ma ancora lontana.
Con un sospiro Won Arnim si lasciò infilare da Thomas un paio di stivali da astronauta che trovava detestabili, un giaccone impermeabile e un passamontagna (mai nome fu più azzeccato). Accettò di buon grado due racchette a cui appoggiarsi e, Thomas al seguito, si mosse in direzione del filo di fumo azzurro che disegnava curve lente fra il comignolo e il cielo stellato.
Il campanello riproduceva un fracasso di mucche al pascolo.
La porta non si aprì subito e Won Arnim sentì il freddo salire verso la bocca dello stomaco.
Fanny sapeva bene che lui sarebbe arrivato, e lo stava aspettando, ma non sapeva rinunciare a imporgli quel balzello, una piccola attesa, sempre, anche quando si sentivano al telefono. Dunque era da due anni che non si vedevano, anche se era convinto che fossero sei mesi.
Il tempo aveva preso un passo talmente veloce….
Lei non lasciava mai La Baita e lui lasciava malvolentieri la città, ma lui era più adattabile, malleabile, morbido. Lei viveva accoccolata nel rigore delle sue scelte estreme.
Won Arnim suonò ancora e sentì, alla fine dello scampanare, la voce roca alzarsi appena di tono per rassicurarlo.
«Sto arrivando sto arrivando vuoi buttare giù la porta?»
(35 – Continua)