Le nuove povertà/34

/ 27.03.2023
di Lidia Ravera

Quando i figli, a loro volta, figliano, pensò Esther, il loro baricentro affettivo si sposta. Fuori dal corpo caldo della famiglia d’origine, con l’obbligo genetico di costituirne una propria, perdendo così il diritto di ribellarsi al padre e alla madre. Le dispiaceva?

Forse no, o almeno non quanto pretendeva, nelle brevi amare discussioni serali, quando Candido sosteneva che andava tutto bene e lei dimostrava, cifre alla mano, che la loro aspettativa di vita non superava quella di una coppia di farfalle, e Tom ancora non si era «sistemato» e nemmeno Betta, benchè fossero belli e intelligenti, lucidi, ironici, colti.

Li vedeva barcollare sotto il peso di quel futuro che non riusciva a incominciare.

Le pareva che fossero troppo fluidi, troppo pazienti, troppo ottimisti e troppo disillusi.

Si pavoneggiavano davanti a lei nella loro giovinezza inventata, ma lei non ci cascava, non era il tipo di donna che prende per buona l’immagine che gli altri vogliono dare di sè.

Fossero estranei o consanguinei. Vantava, Esther, di possedere una sorta di istinto per lo svelamento di ciò che i suoi interlocutori non volevano confessare.

Erano arrivati alla torta di mele con il gelato di crema, quando chiese a Betta:

«Allora, si sono decisi a pagarti, quei mostri? Sara non ci ha detto di che cosa si trattava… e comunque meglio tardi che mai, no?»

Betta arrossì, si morse un labbro, registrò un’accelerazione del battito cardiaco.

Per tutta la cena aveva preparato la risposta a quella domanda e ora non riusciva a dirla, come un attrice che – sul palcoscenico – all’improssivo non ricorda più la sua parte.

Avrebbe dovuto dire, semplicemente: «Ho condotto la serata finale di un premio, il premio Virginia Reiter, per giovani talenti dello spettacolo dal vivo».

Ed era vero.

Alla domanda «quando è stato» avrebbe detto «l’anno scorso» anche se era successo sette anni prima.

Mille euro lordi.

Una miseria, se calcoli lo stress e il tempo investito, un’enormità, se confronti la cifra con il nulla degli anni successivi.

Sul tema «lavori mal pagati» avrebbe potuto intrattenere sua suocera e anche farla sorridere. Sorridere della propria disgrazia era ben visto, in casa Sandrucci.

Poteva preludere ad una seria autocritica o semplicemente dimostrare l’irriducibilità del colpevole alle dure leggi del mercato.

Una patente di nobiltà.

Sarebbe andato tutto bene, se Betta avesse risposto a Esther quello che aveva deciso di rispondere, invece disse, dopo un silenzio gravido di imbarazzo «Scusate, non mi sento bene».

E, nella costernazione generale, andò in bagno.

A vomitare la cena.

Thomas guidava con una prudenza virtuosistica e la Mercedes sembrava scivolare sull’asfalto, nel suo silenzio lussuoso.

Paolo Won Arnim avrebbe voluto assopirsi, ma l’inquietudine che l’aveva invaso, la notte in cui Betta aveva dormito a casa sua, non accennava a ridursi. Nonostante fosse trascorsa, in assenza di altri incontri, un’ intera settimanana.

L’ultima mossa era stata l’invio del vestito rosso che Betta aveva dimenticato, o non aveva accettato.

Poi non era successo più niente.

Lei non si era più palesata, lui aveva rinunciato a ronzare nel quartiere di Testaccio, sperando di incontrarla.

Le sue passeggiate quotidiane erano di nuovo senza meta e senza costrutto, se si esclude la triste necessità di tenere lubrificate le articolazioni.

E questa mutazione l’aveva consegnato ad una forma di insofferenza verso se stesso, composta in parti diseguali, di noia e di biasimo.

Certe volte prevaleva l’una, certe volte l’altra.

Gli succedeva raramente, e mai così a lungo.

In genere andava perfettamente d’accordo con l’immagine che si era costruito e con cui si era identificato fin dai beati anni della giovinezza.

Si era sempre sentito non tanto un vincente, quanto un uomo fortunato.

Per vincere occorre gareggiare, e lui non ne aveva mai avuto bisogno.

Munito com’era di un patrimonio ragguardevole, di una famiglia da disprezzare in un ambiente e da vantare nell’ambiente opposto, con eguale efficacia, dotato di una eccezionale prestanza fisica e di una intelligenza non comune, aveva attraversato gli otto decenni che componevano la sua esistenza con passo sicuro.

Senza altro obbiettivo che scovare sempre nuove forme di godimento, perché – e questo l’aveva capito prima di avere compiuto i trent’anni – la ripetizione è la vera nemica del piacere. Il piacere viene a noia prima di qualsiasi altra esperienza umana. E allora devi alzare la posta, si tratti di cocaina, di sesso, di cibo… o d’amore.

(34 – Continua)