Tornato nella sua stanza, quando fu di nuovo disteso sul suo letto, Von Arnim non riprese a leggere. Neppure l’ennesimo ripasso della Ricerca del tempo perduto, quella furia rallentata dai dettagli con cui, ormai da mesi, animava le sue notti insonni poteva gareggiare con l’ingombrante realtà della presenza di Betta nella stanza di Fanny.
E un’inquietudine sconosciuta si insediò nel suo corpo magro, disordinando le coperte. Gli pareva di essersi spinto troppo oltre. Quella che stava sperimentando non era una delle tante coniugazioni possibili del discorso d’amore, così come si presenta negli ultimi anni di una vita: corteggiare una ragazza, guardarla da vicino, analizzare le sue reazioni, prevedere le sue mosse, godere della sua bellezza. Era l’esercizio spericolato della libertà di chi non ha più niente da perdere. Né niente da conquistare.
Ma non andava bene. Non era giusto. La ragazza si era presentata nel cuore della notte con quell’abito rosso. Il suo corpo lungo e pallido, la sua pelle compatta, i capelli spettinati, i piedi nudi… tutto, prima degli anni delle Grande Inappetenza, l’avrebbe spinto a prenderla fra le braccia, sdraiarla sul letto e penetrare nel segreto del piacere reciproco, quella cerimonia barbarica che secoli di romanticismo avevano provato a nobilitare con l’amore.
Non era più quel tempo.
Si chiese se la ragazza ci fosse rimasta male, per quel mancato omaggio alle sue grazie, grazie di cui – va detto – era assolutamente consapevole.
Probabilmente sì.
O forse no, forse aveva provato la gratitudine che le persone intelligenti provano al cospetto di comportamenti originali. Oppure, giovane com’era, aveva messo il tutto in conto alla misteriosa vecchiaia con il suo visibile e invisibile corteo di menomazioni.
Al vecchio non regge l’arnese, preferisce astenersi che affrontare una cattiva figura. Un’interpretazione che sarebbe piaciuta al giovane marito di Betta.
Appena ebbe formulato questo sottopensiero il vero motivo della sua inquietudine si palesò nella stanza, come un fantasma di proporzioni lillipuziane ma perfettamente riconoscibile.
Tom, il giovane.
Provò a immaginarlo nell’atto di suonare con troppa foga il citofono, di salire le scale saltando sui gradini, dopo aver sdegnato l’ascensore, di picchiare coi pugni contro la porta chiusa, di travolgere Thomas e infine di sparare contro di lui, un colpo di scacciacani in pieno petto.
Provò a sorridere. Di sé, del giovane Tom, della scacciacani di cui la sua immaginazione l’aveva dotato. Ma nessuno lo stava minacciando, era solo nella sua stanza. Il sorriso con cui accoglieva e teneva a distanza quelle che Fanny chiamava «le sue vittime», così generoso e indifferente, quel sorriso che aveva perfezionato negli anni fino all’attuale solido splendore, in assenza di pubblico sarebbe andato sprecato. Dunque, come una massaia oculata, lo spense.
Quindi inghiottì, con un sorso di vino bianco, due milligrammi di melatonina.
L’idea era di dare un taglio alle elucubrazioni. Constatò che erano quasi le sei del mattino e decise che poteva telefonare. Fanny andava a letto presto e si svegliava presto. Per cinquant’anni avevano convissuto nonostante ritmi circadiani opposti.
Ma la loro era quel tipo di relazione che fa tesoro di ogni differenza, perciò, se anche l’avesse colta nel sonno, non si sarebbe arrabbiata e non gli avrebbe negato il conforto della sua intelligenza, anche se, probabilmente, non si sarebbe presa la sua parte di colpa.
Ma poi: era veramente una colpa o non era piuttosto una forma contorta di invito alla generosità, quel consiglio: «mettile dei soldi in una busta e vediamo come reagisce».Era da una vita che Fanny disponeva delle ingenti fortune di Von Arnim come se fossero un peso di cui doveva aiutarlo a liberarsi. Ed era da una vita che lui la assecondava.