Le nuove povertà/26

/ 23.12.2021
di Lidia Ravera

Mentre si affacciava nel buio di quel corridoio troppo lungo, Betta provò a sentirsi magnanima, come facilmente si sentiva quando si sporgeva verso vite molto più corte della sua o molto più lunghe.Non ci riuscì, non con la leggerezza che avrebbe voluto. Pensò che non aveva senso andare dal vecchio, se avesse voluto godere della sua pregiata giovinezza (con lui si sentiva una ragazza) non l’avrebbe spedita a letto come una scolaretta. C’era qualcosa in lui che la metteva in soggezione.

Niente di razionale, una sensazione che le fece richiudere la porta, riaccendere la luce nella camera da letto, aprire l’armadio, prendere il vestito rosso cui aveva dedicato uno sguardo breve e indossarlo, sul corpo nudo, senza la protezione della biancheria intima, gustando la morbidezza del raso e come aderiva ai fianchi, ai glutei, alle cosce. Si sentì bella. E provò un impeto di riconoscenza. Von Arnim, Paolo Von Arnim, mormorò a se stessa, caro vecchio Von Arnim. E decise che sì, doveva ringraziarlo. E offrirgli qualcosa.

Scalza, camminando in punta di piedi, sentiva il parquet scricchiolare nel silenzio. Non conosceva l’appartamento, che era molto vasto, e subito il buio la avvolse di nuovo. Si sentì soffocare ed ebbe paura. Decise di tornare di nuovo nella sua stanza, nella stanza che le era stata assegnata e dormire, o non dormire, ma restare lì, quieta, ad aspettare il mattino. E con il mattino l’equanimità che le era stata promessa come una condizione certa. Provò a tornare sui suoi passi, ma non ritrovò più la strada.

Vide una lama di luce, sotto una porta chiusa e pensò che doveva essere stata lei a lasciarla accesa, dopo aver indossato l’abito rosso, dopo essersi guardata allo specchio. Si mosse in direzione di quel segnale luminoso, disorientata. Aprì la porta senza bussare, pensando che l’avrebbe accolta il vuoto della sua camera. Vide Von Arnim, invece, che era a letto, appoggiato a un ordinato schienale di cuscini.Stava leggendo, ma non teneva fra le mani un libro, come ci si sarebbe aspettati da lui, fra le mani reggeva il rettangolo metallico di un lettore elettronico. Lo abbassò lentamente e sorrise a Betta, che restava sulla soglia, la mano ancora poggiata alla maniglia. I piedi scalzi, il vestito rosso, i capelli umidi.

«Ti sta bene», disse il vecchio.

Betta provò a sorridere, ma, improvvisamente, sentiva freddo. «Mi sono persa», disse, e subito si rese conto che il vestito rosso contraddiceva la sua dichiarazione. Il vecchio si alzò, con un certo sforzo, dal letto. Indossava un pigiama di popeline grigio perla e un paio di pantofole di pelle dello stesso colore. Il leggero profumo che Betta percepì quando lui le fu vicino le fece pensare che, in qualche modo, si aspettasse la sua visita. Tuttavia non la fece accomodare.

«Ti accompagno», disse e la scortò fino alla camera che le aveva destinato. Fu Betta, mentre il cuore le batteva forte, a dirgli, sostando sulla soglia: «Nessuno dei due riesce a dormire, mi pare».

«Per me è normale, è come se il mio corpo avesse bisogno della luce del mattino per la resa quotidiana del sonno. Mi addormento sempre all’alba. Tu invece devi dormire. Domani avrai una giornata faticosa».

«Sì, probabilmente, devo recuperare la mia roba», disse, imbronciata, «e anche mia figlia. Te l’ho detto che ho una figlia?».

«Mi hai detto che sei una pessima madre. Ma io mi riservo il diritto di non crederci».

Il vecchio le strinse tutte e due braccia, che erano nude e fredde, in una morsa affettuosa, le sfiorò la fronte con un bacio troppo distante per essere davvero paterno e si accomiatò.