Aveva detto a Von Arnim: «Certe volte sentirmi brutta e infelice mi mette al riparo dal giudizio, non so se mi spiego. Mi dà coraggio. Tipo: la certezza di non poter cadere più in basso, di non aver niente da perdere. Se fossi venuta da te tutta impennacchiata nel mio vestito più sexy, se avessi i capelli puliti e gli occhi truccati, adesso non sarei qui a parlare così, liberamente e con leggerezza e senza mascherarmi dietro qualche sentimento grazioso come la disperazione degli adolescenti».
Aveva detto «Mi sento meglio», senza nascondere né esagerare il tremito che le scomponeva il gesto di portare alla bocca, ora il bicchiere, ora la sigaretta.
Aveva detto: «Il momento peggiore è stato quando ho suonato il citofono. Senza sapere qual era il bottone da premere. Ci sono soltanto numeri nei palazzi di lusso, vero? Bisogna essere ricchi per accettare di essere un numero». Aveva riso, gettando la testa all’indietro, mostrando il palato, in una scompostezza nuova.
«Li ho suonati tutti, i citofoni. E qualcuno mi ha aperto. C’è sempre qualcuno che apre una porta quando hai il coraggio di bussare a tutti».
Aveva parlato senza darsi tempo per selezionare quello che andava dicendo, così parole minimali, di uso comune, erano finite nello stesso flusso ubriaco delle parole importanti, come «disturbo narcisistico di personalità», «sé grandioso», «mistificazione delle relazioni» (aveva cercato di spiegare perché aveva deciso di lasciare Tom) e «dazione di senso».
Le premeva che il vecchio capisse la portata reale della sua disgrazia.
Eppure non voleva nominarla.
Non voleva dirgli «siamo poveri», è la povertà che mi riempie di vergogna e di paura, è la povertà la colpa di Tom, e non ho intenzione di continuare a perdonargliela.
Non era riuscita a essere sincera nemmeno dal fondo di quella nuova sensazione, non riusciva ad accomodarsi nella disfatta con la grazia distratta con cui, vent’anni prima, si era posizionata nel successo.
Quel successo che ora le pareva un antefatto senza importanza.
Avrebbe voluto raccontare al vecchio tutta l’inconsistenza di quei primi passi luminosi (19 anni, bella, una memoria prodigiosa), avrebbe voluto condividere l’illusione, la delusione.
E infine quella certezza scomoda e indiscutibile: siamo al mondo per essere infelici. Avrebbe voluto consegnare a Von Arnim, ma forse a chiunque, tutta la sua disperazione.
Invece era riuscita soltanto a esibire il quadro clinico di Tom, sfoggiando tutto quello che aveva imparato in undici anni di transfert e controtransfert, sul divano di M.
Non gli aveva confessato di essere stata tutto quel tempo in analisi, nel tentativo di imparare ad adattarsi alla vita. M. era stato, in effetti, il primo «vecchio» della sua vita. E lei aveva fatto di tutto per sedurlo. Come da manuale. Non ci era riuscita, perché erano altre le regole del gioco.
Ma forse presentarsi a casa del vecchio che le aveva pagato una cena, regalato del danaro, consegnato un invito mondano e raddrizzato l’ego a forza di complimenti era stato un succedaneo di quel romanzo d’amore mancato.
Se no che cos’altro?
Certo aveva parlato troppo e ora taceva, spossata, come una nuotatrice appoggiata al bordo della vasca, gli occhi socchiusi, i muscoli ancora pulsanti.
Von Arnim le sfiorò una spalla. Ascoltarla era stato facile, la cosa giusta da fare, e anche offrirle un bicchiere di vino. Era stato facile nascondere lo stupore (per quanto, alla sua età, si configurasse come un regalo inestimabile) nel vederla inquadrata nel vuoto della porta, con la stessa tuta sporca che indossava a mezzogiorno, uno sguardo smarrito e una crosta di sangue rappreso sotto il naso.
Dunque aveva litigato con il marito. La cosa non gli dispiaceva, naturalmente. Era uscita senza prendere niente, borsa chiavi portafoglio.
Non aveva intenzione di rimettere piede in quella casa finché c’era lui.
O almeno così aveva dichiarato, con quella passione per le decisioni che rendeva la giovinezza nello stesso tempo stagnante e movimentata.
«Posso offrirti ospitalità, se vuoi. La casa è grande», disse e poiché non aveva detto nient’altro la sua voce gli sembrò fredda.
Per correggere quella sensazione Von Arnim sorrise e aggiunse: «Dormivamo in due camere separate, io e mia moglie, ciascuna con il suo bagno e un salottino, per così dire, privato. I matrimoni longevi hanno bisogno di spazio e di tempo, di non vedersi appena svegli, di non guardarsi prima di andare a dormire».
Betta si lasciò accompagnare lungo un corridoio largo, fino ad una doppia porta imbottita. Von Arnim la aprì, accese una luce, le cedette il passo.