Betta decise, con freddezza, con determinazione, di ammalarsi. Non era difficile: bastava restare coricate sul divano letto, senza aprirlo perché si sarebbe mangiato tutto lo spazio, e smettere di mangiare.
Quando Tom era tornato a casa, brillo e innamorato di sé stesso, dopo aver pranzato con Livia, non si era alzata. Non aveva detto una parola, né offerto alcuna spiegazione, non si era asciugata i capelli, fradici dopo il temporale, godendosi ogni brivido, sperando nella febbre. A Sara aveva allungato un biglietto su cui era scritto, in stampatello: mal di gola, non posso parlare. Aveva sentito padre e figlia confabulare in camera della figlia, l’unico vano con una porta.
Aveva pensato che quella era una casa in cui non era possibile starsene al calduccio, malati. Il cosiddetto angolo cottura distava dal divano letto meno di due metri. Il divano letto di giorno era chiuso. La malattia non poteva consentire alla notte di irrompere nel salotto. Tre persone potevano diventare una folla. A disagio, perché quando a stare male non era lui provava un inspiegabile imbarazzo, Tom chiese a Betta ulteriori informazioni sul suo stato di salute. Betta scrisse: tracheite, credo. Rifiutò «una bottarella di cortisone». «Ti fa tornare la voce», disse Tom. Betta non reagì. «Così puoi mandarmi al diavolo», aggiunse Tom, conciliante. Betta non sorrise. «Con la vecchia signora è andata bene, abbiamo appuntamento domani in banca». Betta chiuse gli occhi. E finalmente Tom aiutò Sara a prepararsi una borsa e, con calcolato vittimismo, annunciò: porto la bambina da mia madre, così ti lasciamo tranquilla.
Per alcune ore, Betta gustò la solitudine. Dormì mezz’ora. Rilesse certe parti di Franny and Zooey, tentando, come altre volte, la carta dell’estasi buddista, quell’elevazione verso il distacco che consente di trasformare le giornate peggiori in altrettante prove di resistenza all’urto della realtà. Pensò che le sarebbe piaciuto interpretare un film tratto dal quel breve fantastico romanzo di J.D. Salinger. Poi pensò che Franny aveva circa diciotto anni e lei ne aveva compiuti 40 tre settimane prima: semmai a teatro, dove non esistono i primi piani, ma il cinema scordatelo, bella mia, al cinema o la madre di Franny o niente. Si alzò. Constatò che non aveva nemmeno una linea di febbre (36 e 8), che Sara aveva mangiato tutto quello che c’era in frigo (due uova, un pezzo di parmigiano duro come un sasso, tre pacchetti di crackers) e che il languore in cui si era accoccolata da ore stava diventando fame.
Dopo aver frugato nelle tasche del giaccone di Tom e nel fondo di tutte le sue borsette, trovò una banconota da 5 euro. La strinse nel pugno, come una bambina cui qualche adulto ha regalato una mancia per le caramelle. Si infilò in una tuta sportiva non troppo pulita e uscì, decisa a trasformare quella miseria in un trancio di pizza. Avrebbe mangiato in fretta, seduta su un gradino, sporcando la strada e dopo aver colmato quella voragine si sarebbe rimessa nel letto. Avrebbe continuato a fingere d’aver perso la voce. E si sarebbe, finalmente, concessa un silenzio da martire, una quota tutta sua di depressione, non avrebbe più reagito, non avrebbe rilanciato.
La vita poteva anche essere scansata, con un minuscolo movimento del piede, come una deiezione di cane, senza enfasi, senza pasticche o altri complicati progetti autolesionisti.
Come aveva tentato a 22 anni, quando si era separata da Paolo, lasciandolo un attimo prima che lui lasciasse lei. Anche se Tom continuava a sostenere che le cose non erano andate così.
Una boccetta di calmanti leggeri che non avrebbero ucciso un bambino. Il gas acceso e le finestre sigillate con il nastro isolante fino a quando il nastro isolante non era terminato, lasciando ampi spiragli scoperti.
L’appuntamento delle quattro di pomeriggio, con quel mezzo agente che stava gestendo gli esordi della sua carriera dimenticato... (ma se l’era poi davvero dimenticato?). L’odore del gas, il mezzo agente che picchia contro la porta (ma s’era davvero dimenticata di chiuderla?), la porta che si spalanca, la corsa in ospedale. Una flebo, una serie di ramanzine che finivano tutte con la stessa frase: una ragazza così bella. Come se la bellezza dovesse mettere ogni essere di sesso femminile al riparo dalla disperazione.
No, non avrebbe inscenato altri gesti estremi.
Non era da lei.
Avrebbe mangiato, avrebbe taciuto e avrebbe aspettato che la miseria facesse il suo corso. Scese le scale lentamente. Nella buca delle lettere c’era una busta. Per dimostrare a se stessa che non si aspettava più niente dalla vita la prese e se la infilò nella tasca della tuta. Senza aprirla.