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Le nuove povertà/16

/ 08.03.2021
di Lidia Ravera

«Betta la bella».

Betta tentò di ancorarsi a quel titolo da miss, quell’etichetta lusinghiera, per ritrovare un po’ di autostima. Non ci riuscì. Sentiva l’offesa dilagare sottopelle come una emorragia inarrestabile. Dunque tutti parlavano di lei alle sue spalle. Von Arnim la derideva con sua moglie. M. Si lamentava con suo figlio, e magari anche con gli amici. La paziente bella che non paga mai. Altro che «quando uscirà da questo momento difficile... non se ne faccia un problema». Faceva lo splendido, lo stronzo.

Provò a sintonizzarsi sul disprezzo. Dunque una persona evidentemente scompensata viene da te a farsi curare e tu la sputtani con quel tuo figlio bonsai, quel mezzo uomo, quel nano senza capelli, uno che aggredisce le donne per strada. Si sa che i figli degli psicanalisti hanno tutti una rotella fuori posto, ma questo è anche cattivo... le frasi si inseguivano mute, grossolane. Avrebbero dovuto, nelle intenzioni, scaricare la rabbia, rallentare quella discesa agli inferi cui non sapeva opporre altro che una debilitante forma di pena per sé stessa. Invece stavano peggiorando la situazione. Da quanto tempo si parlava addosso per assenza di interlocutori?

Sentì scorrere le lacrime sulla pelle del viso. Benissimo. Non le avrebbe trattenute. Che il mondo la vedesse piangere, che guardassero tutti, se voleva sapeva esporle anche lei, le sue ferite, come una di quelle performers pazze che si piantano gli spilloni nelle guance e restano lì, in mostra, a sanguinare nei musei. Godetevi il mio dolore. Non farò niente per nasconderlo.

Si mise gli occhiali da sole, anche se, da un cielo quasi bianco, aveva ripreso a scendere una pioggia regolare e fredda. Mentre i passanti, unico pubblico a sua disposizione, si affrettavano verso qualche riparo, Betta rallentò e sedette su una panchina.

Riconobbe con sforzo il giardino che stava attraversando come se fosse stato qualcun altro a portarla fin lì. Un vagone blindato, un tappeto volante.

Era seduta davanti a Castel Sant’Angelo, in un tondo piccolo parco stentato, illuminato da una quinta monumentale. Sentiva fame e freddo. La pioggia stava inzuppando la tela dei blue jeans.

Sentiva i capelli incollati alla fronte, li spostò con la mano. Pesavano. Pensò che si sarebbe ammalata. Sperò che qualcuno la avvicinasse e la sgridasse per come stava mettendo a repentaglio la sua salute.

Qualcuno, chiunque. Smania di relazione, Tom la chiamava così.

Quando ti piglia la smania di relazione ti faresti anche mister Nobody.

Mister Nobody era uno dei personaggi che animavano la loro intima officina creativa, prima che chiudesse i battenti per tristezza: si trattava di un omarino senza qualità, perennemente alla ricerca di un pasto caldo fra le cosce di una donna. Era ampolloso nei modi, banale nelle opinioni e perpetuamente arrapato. Veniva deriso, e subito dopo archiviato con l’infamante marchio di «Nobody», qualsiasi uomo dimostrasse una eccessiva ammirazione per le grazie che Betta esibiva senza ritegno. Almeno finché Tom le aveva riservato la lusinga di una gelosia puntuale e appassionata. Von Arnim, pensò, non era stato marchiato e archiviato come Mister Nobody.

Perché era un vecchio o perché Tom non la amava più? Pensò che non gli avrebbe detto che aveva una moglie.

Magari ucraina, magari giovane. Con quegli zigomi speciali che hanno le slave. Non aveva intenzione di umiliarsi ulteriormente.

Sentì i primi brividi e li accolse con una sorta di stanca gratitudine. Il giardino si era svuotato. Si alzò, la fame si era dileguata, lasciando una traccia bruciante sulle pareti dello stomaco.

La pioggia stava assumendo la forma romantica di un temporale. Le gocce s’erano fatte grosse e colpivano il fiume creando vortici sulla superficie ondeggiante.

Betta era scesa sull’argine del Tevere, dove Tom andava a correre, almeno finché si era pavoneggiato in quella salutare abitudine.

Non c’era nessuno, su quelle stesse banchine che la domenica ospitavano biciclette, bambini e atleti da weekend. Un barbone stava gonfiando un materassino di plastica sotto il Ponte Mazzini. Le tese un cartone di vino e le disse qualcosa. Betta non capì ed ebbe paura. Si mise a correre, mentre il cielo crepitava di tuoni. Scivolò nel fango e cadde, ma si rialzò subito, la paura era più forte del dolore alla caviglia. Continuò a correre fino a casa, zoppicando. Non si era mai sentita così brutta, non le era mai importato così poco.

Non si fermò neanche a guardare nella buca delle lettere, come faceva sempre, da quando aveva trovato, quelle cinque banconote benedette.

Von Arnim, che l’aveva vista arrivare sporca di fango e non aveva osato palesarsi, andò a riprendersi la busta. Preoccupato.

(Continua)