«Quella è stata un’idea di mia moglie»
Betta sorrise in ritardo e con uno sforzo evidente. Dunque il vecchio aveva un moglie. Una giovane iena probabilmente più bella di lei e certamente più furba, una di quelle che non sbagliano un passo dall’età pediatrica fino a una precoce scintillante vedovanza. Si alzò, sentendosi addosso il sorriso superiore di Von Arnim (Von Arnim: gran bel cognome per una badante ucraina o bulgara, dagli zigomi imponenti) e con il sorriso superiore di Von Arnim la certezza di aver perso ogni fascino.
«Grazie per il caffè», disse, rigida, e uscì dal salotto.
L’imbarazzo non è grazioso se non è simulato, l’imbarazzo ti fa arrossire e tartagliare e sbagliare tono, è una dichiarazione di inferiorità. Quando è autentico. E quello di Betta lo era. Sentì la porta chiudersi dietro le sue spalle.
Von Arnim non l’aveva seguita.
Non si era scusato. Non aveva detto una parola. E non l’aveva accompagnata all’uscita, lasciandola sola ad attraversare la penombra di una anticamera che le parve improvvisamente sproporzionata, ridondante di marmo, cafona.
Nemmeno il senegalese, con la sua uniforme da cameriere, si era materializzato al suo fianco. E questo era davvero intollerabile. Si sentì come un piazzista d’altri tempi, scacciato dal decoro degli appartamenti degli altri mentre prova a vendere un’enciclopedia illustrata. La madre di Tommaso l’aveva fatto, per mantenersi all’università e ne aveva tratto una gustosa serie di aneddoti sull’umiliazione. Mentre scendeva di corsa quelle scale monumentali la perseguitava l’immagine del vecchio e della sua giovane moglie che discutevano sulla cifra da destinare a quella poveraccia con la sciarpa di cachemire.
Cioè a lei, Betta. Lei era la protagonista inconsapevole di un gioco di coppia. «Dai corteggiala un po’, lo sai fare così bene. Poi le diamo dei soldi e vediamo come reagisce. Uh, non sai quante ce n’è che farebbero qualsiasi cosa per un paio di banconote da cento!». «Tu ne conosci?» «Sì che ne conosco, caro. Quando facevo ancora la escort, prima di conoscerti amore mio, ne ho incontrate un sacco, non erano professioniste. Erano studentesse o casalinghe felici di farsi un vecchio per un paio di Luoboutin da 575 euro... ma soprattutto erano attrici, attrici disoccupate. Sì sì, le attrici erano la maggioranza: fallite bellocce sull’orlo della quarantina. Posso presentartene un battaglione. Basta chiedere». Quel dialogo le scorreva davanti agli occhi come una didascalia Si ripeteva, volgare, con poche variazioni. Le rimbombava in testa mentre camminava, si interrompeva e ricominciava, anche se accelerava il passo per non sentirlo. Erano due voci intrecciate, confidenziali, divertite. Lui e lei. Complici. Paolo e Natasha. Paolo e Olga. Paolo e Ludmilla.
Iniziava così la schizofrenia? Con quel fracasso che soltanto lei sentiva? Senza averlo deciso, presa com’era da quel sintomo, Betta si ritrovò in via Valadier 45, davanti al portone che aveva varcato, per undici anni di fila, provando a dare un nome, una causa, una cura, al suo dispetto, alla sua inquietudine, alla sua confusione. Si era sempre trattato di prevenzione del dolore, pensò, e per tutti quegli anni aveva funzionato, ma forse non funzionava più. Forse stava per scoppiare un bubbone nascosto
Pensò che doveva dirglielo, doveva avvisarlo e farsi mettere in sicurezza.
Erano appena le dieci del mattino. Il suo appuntamento, al quale fino a quel momento aveva pensato di non presentarsi, era per il giorno dopo alle 17. Restò in piedi, la schiena appoggiata al portone, in attesa, per un tempo che la sua naturale impazienza non le aveva mai concesso. Vide uscire una donna con la borsa della spesa, una donna con un bambino. Due ragazze. E finalmente un uomo giovane, piccolo di statura e stempiato, con un cerotto sulla fronte e un’espressione esausta. Le parve di averlo già incrociato sul pianerottolo o forse nel salottino dove, quando era particolarmente in anticipo, restava ad aspettare. Decise di affrontarlo, soltanto perché era reale e lei aveva bisogno di installarsi nella realtà.
«Mi scusi», disse, e già sentire la sua voce le fece bene, «È anche lei un paziente del dottor M.?» L’uomo le dedicò uno sguardo volutamente annoiato:
«No», disse, poi aggiunse. «Ci mancherebbe».
Pronta a difendere M. e la sua nobile missione Betta chiese: «In che senso “ci mancherebbe”?».
«Nel senso che sono suo figlio», rispose l’uomo.
Betta gli tese la mano, euforica, come una fan che incontra una celebrità:
«Io sono una paziente di suo padre da undici anni, è un uomo straordinario».
L’uomo si lasciò stringere la mano senza partecipare, si asciugò il palmo sui blue jeans, come se temesse un contagio poi disse: «Lo so lo so, chi sei... Sei Betta, Betta la bella, quella che non paga mai. Prima o poi dovrai farlo, sai? I soldi servono a tutti. Anche agli uomini straordinari».
(Continua)