Le nuove povertà (25)

/ 15.11.2021
di Lidia Ravera

Erano le quattro del mattino, e Betta non riusciva a dormire. Von Arnim era stato impeccabile con lei: l’aveva ascoltata mentre se la prendeva con la sua bellezza, mentre malediceva maternità e matrimonio, mentre esaminava, scartandolo, ogni possibile, dicibile, narrabile senso della vita: dall’esercizio della carità come pratica per dimenticare se stessi alla sfrenata ambizione che coltiva il proprio talento come un grimaldello per aprire la cassaforte dove si cela l’ammirazione degli altri. Era stata confusa ma raffinata. Aveva offerto al vecchio uno degli spettacoli migliori di quello show, più volte rappresentato, che lei e Tom chiamavano «l’intelligenza della disperazione».

Le era parso che lui seguisse i suoi gesti e le sue parole con quella dolcezza venata di preoccupazione che scatena la prima forma di erotismo femminile, la passione edipica. Era tardi quando l’aveva invitata a seguirlo in direzione di «un bagno caldo e una bella notte di sonno». La camera che le aveva assegnato conteneva un letto matrimoniale, un divano, due poltroncine, una toeletta, un terrazzino affacciato sulla via e una piccola scrivania con una sedia imbottita.

Le era parso di sprofondare nei primi decenni del novecento come per un sogno di eleganza, aveva abbracciato con lo sguardo quella geometria essenziale, rigorosa. Vagamente cubista. Il bagno in marmo nero e un armadio a muro in cui era appeso, unico, un abito da sera di raso rosso lacca, completavano l’ospitalità. Era stato un colpo basso, offrirle quel rifugio costoso, quegli spazi generosi. La camera da letto, aveva calcolato a occhio, era più grande di tutto il suo appartamento compresa la stanza di Sara. Rivoltandosi fra le lenzuola, in attesa di quel cedimento del discorso logico che precede il sonno, Betta si chiese perché Von Arnim, non avesse approfittato di lei. Niente. Nemmeno una carezza, uno sguardo arrapato, un lampo di libidine repressa ad arte. Qualcosa da cui trasparisse il suo desiderio.

Le aveva augurato la buona notte e si era ritirato. Lasciandola sola con l’angoscia. Mentre ne parlava con il vecchio si era convinta che quel litigio doveva essere l’ultimo. «Questa volta lo mollo, “fanculo e tanti saluti”», aveva detto, gustando l’effetto-verità del registro basso che avrebbe usato con un’amica. «Non ho più pazienza. La sua è una gelosia infantile, da bambino viziato. Sua madre gli ha instillato, goccia dopo goccia, la autopercezione del genio. Tu sei bello, tu hai talento, hai il dono e sa Dio se siete in pochi. Dovrai adattarti a questo mondo di mediocri , ti faranno la guerra, l’invidia ti perseguiterà come capita ai beniamini dell’Olimpo, ma alla fine vincerai perché sei il migliore».

Mentre faceva il verso a sua suocera, le era parso, all’improvviso, di avere ragione. Di essere una persona migliore, più pulita, più etica di Tom. Non aveva avuto niente dalla sua famiglia lei, e si vergognava di loro, di sua madre e suo padre. Soprattutto di sua madre, questo campione di normalità devastata dagli stereotipi. Tom le aveva fatto vedere il capolavoro di Douglas Sirk, Imitation of life, quello dove la figlia bianca della Tata di colore finge con tutto il mondo che sua madre sia la sua cameriera perché riconoscerla vorrebbe dire essere vissuta, anche lei, come una «negra».

Mentre raccontava il film a Von Arnim si era sentita umile e nobile, come chi viene dal basso e si fa strada nella vita. Lui la guardava comprensivo. Non aveva detto molto. L’attenzione con cui seguiva le sue parole, i gesti delle sue mani dalle dita lunghe, la comparsa e la scomparsa repentina delle lacrime, aveva qualcosa di teatrale, ma Betta l’aveva trovato rassicurante, tanto da stingere in un passato remoto tutto l’incidente. Soltanto con una frase, prima di accomiatarsi, il vecchio l’aveva riportata alla realtà. «Al momento Tom sa che sei viva, abbastanza viva da dedicargli un messaggio antipatico. Domani, con l’equanimità del mattino, prenderai una decisione».

Betta decise che erano quelle parole a impedirle il sonno. Si alzò. Il vecchio le aveva prestato una t-shirt lunga, bianca, leggermente profumata. Insieme ad una borsetta per l’igiene di quelle che ti regalano in business class sui voli intercontinentali. Si guardò nello specchio lungo approvando il risultato del bagno caldo, dello shampoo. Della stanchezza e delle lacrime. Pensò che quella nudità notturna avrebbe abbrevviato la distanza fra lei e il vecchio. E andò a cercarlo.