Si chiamava A Duan, ed è quasi tutto ciò che sappiamo di lui. Veniva dalla Cina, e intorno al 1750 si trovava in Italia. Avrebbe potuto essere il capostipite o il progenitore della comunità cinese, che oggi è una delle più numerose e in alcune città, come Milano e Firenze, ha già una storia secolare: i discendenti dei primi immigrati hanno iniziato a raccontarla in italiano. Anche A Duan è rimasto in Italia per sempre. Ma non sappiamo se l’abbia scelto.
La sua vicenda individuale è appena un frammento, un bagliore in una storia che lo esclude o lo ignora. Secondo una versione, A Duan aveva soggiornato a Venezia. Ed è possibile, perché la capitale della Repubblica Serenissima, benché avviata al tramonto (avrebbe cessato di esistere nel 1799), era ancora al centro di traffici e commerci con l’Oriente: vi transitavano e a volte vi si stabilivano genti di ogni razza, lingua e paese (turchi, persiani, mori, indiani). Il fascino che esercitavano questi «orientali» è testimoniato dalla coeva pittura di Tiepolo, popolata di seduttrici esotiche ed enigmatici profeti in turbante.
Secondo un’altra versione, A Duan si trovava invece a Roma, che aveva raggiunto in occasione del Giubileo del 1750. E anche questo è possibile, perché l’anno santo attirava nella città eterna pellegrini di ogni provenienza. In proporzione al numero di abitanti del pianeta, in quantità paragonabili agli attuali flussi turistici di massa. I più poveri o devoti arrivavano a piedi, gli altri in carrozza. Il viaggio poteva durare mesi. Ma tutti visitavano le sette basiliche, e ricevevano l’indulgenza. A patto che fossero cristiani cattolici. A Duan però poteva essersi convertito. I missionari non avevano rinunciato a conquistare le anime e cercavano di diffondere la parola di Dio in ogni angolo della terra.
In ogni caso, A Duan non era solo. Viaggiava con la sua giovane sposa, cinese anche lei. Ignoriamo il suo nome. I due, benestanti, erano accompagnati da una domestica. Li hanno trovati in un borgo della Valnerina, Ferentillo.
Apparteneva allo Stato Pontificio, ma non era lungo la via Francigena né lungo la strada percorsa usualmente da chi volesse dirigersi a nord (o nella direzione opposta, verso Roma). La strada seguiva il corso dell’impetuoso fiume Nera, fra costoni sempre più ripidi e infine le montagne. Lungo la valle – verde di foreste e prati – si potevano trovare monasteri, villaggi, locande, e stalle per cambiare i cavalli. Ma poco altro. È una strada che si percorre piuttosto fuggendo.
Stavano fuggendo, infatti, A Duan e la sua sposa. Il colera (altri dicono la peste nera) dilagava nello Stato Pontificio. L’insalubrità di Roma (flagellata dalle febbri malariche) era nota, ma le misure di quarantena in caso di epidemie di morbi infettivi assai rigorose. Nel corso dei secoli i papi avevano istituito appositi ministeri della salute e durante le epidemie conclamate chiudevano i confini, sguinzagliando su strade e ponti squadre di bargelli. Non filtravano nemmeno le merci. Forse A Duan e la sua sposa temevano – soffermandosi ancora a Roma – di restare rinchiusi. Forse temevano soltanto di contrarre il morbo. Era più probabile ammalarsi in una città popolosa, dove le condizioni igieniche erano carenti perfino nei rioni centrali, che in una valle fra le montagne.
Fuggirono dunque verso l’interno. Ma si erano già contagiati. Quando arrivarono a Ferentillo stavano così male che dovettero fermarsi. Morirono entrambi, dopo pochi giorni di delirio. Gli abitanti del posto li seppellirono nella cripta della loro chiesa di Santo Stefano – benché dei due stranieri conoscessero a stento il nome.
Sarebbero rimasti sepolti nell’oblio se il microclima, la chimica e i sali della terra non avessero deciso che quegli ospiti di passaggio dovevano restare per sempre. Dopo l’editto di Napoleone che vietava le sepolture all’interno delle mura cittadine, vennero costruiti nuovi cimiteri e le spoglie traslate. I morti della cripta però erano intatti. Mummificati. Avevano ancora pelle, unghie, capelli, denti, labbra… Della sposa di A Duan si è conservato addirittura il ricco vestito. Di entrambi, il volto. I loro lineamenti orientali ci interrogano ancora col loro mistero, a rivelarci la mobilità inattesa di genti che – per fede, per amore, per affari o per curiosità – giravano il mondo come fosse un’unica casa.