Gentile signora Silvia,
sono una sua assidua lettrice ma non mi sarei mai immaginata di scriverle. Adesso invece, improvvisamente, mi trovo a chiederle aiuto perché sono nel panico. Mia figlia, col marito e due figlie di sette e tredici anni, vive da tempo vicino a Codogno, nella zona rossa del Corona Virus, quella messa in quarantena.
Domenica avremmo dovuto trovarci insieme per festeggiare, come ogni anno, l’anniversario del loro matrimonio ma naturalmente non se ne farà niente: tutto rinviato a data da destinarsi. Ci sentiamo ogni sera via Skype ma, probabilmente è colpa mia, non sento un vero contatto. Ci scambiamo frasi di circostanza: «come va?», «c’è qualche novità?», «cercate di stare sereni», ma sereni non siamo, né noi né loro.
Non si sa quando l’emergenza finirà, se si eviterà il contagio, che cosa ne sarà dopo. Mio genero manterrà il posto di lavoro? I mutui saranno sostenibili? Tante domande, nessuna risposta.
Non riesco più a dormire la notte, mi giro e mi rigiro nel mio letto in preda a un’ansia che non trova pace. Mio marito mi riprende, mi sgrida, non capisce, ma io sto male davvero e mi dica lei se posso farci qualcosa. / Federica M.
Cara Federica,
precipitare all’improvviso in un’emergenza così grave suscita reazioni emotive difficilmente controllabili. Molto dipende dal temperamento innato, più o meno tranquillo, dal carattere introverso o estroverso, nonché dal passato personale. Qualcuno ha attraversato, nella sua vita, circostanze così traumatiche da aver prodotto e conservato sostanze immunitarie contro la disperazione mentre altri, come mi sembra il suo caso, avendo avuto un’esistenza serena, si trovano impreparati di fronte a un trauma collettivo.
In questo momento, poiché non siamo in grado di valutare completamente il rischio, di prevedere le conseguenze, di calcolare i danni, navighiamo a vista sperando di non incontrare, lungo il percorso, troppe insidie. Per fortuna, dopo un primo tempo di allarmismo stanno prevalendo forme di comunicazione razionali e coscienti, informazioni precise e documentate che aiutano a ragionare, la cosa più importante da fare. Per prima cosa dobbiamo distinguere l’ansia come stato di allarme diffuso, come minaccia incondizionata, dalla paura che è una forma istintiva di difesa verso un pericolo preciso. Guai se non ci fosse! Quella che dobbiamo superare è l’ansia che, se non elaborata, può dar luogo ad attacchi di panico.
Rievocare il passato ci può aiutare a ridimensionare l’allarme perché insegna che le epidemie hanno un picco d’intensità ma poi decrescono e finiscono col concludersi. Molte, anche recenti, hanno provocato un terribile spavento ma poi, adeguatamente contenute e curate, sono state debellate e addirittura ben presto dimenticate. Quella attuale rivela una straordinaria velocità di diffusione ma i servizi sanitari dei Paesi più avanzati sembrano in grado di far fronte all’emergenza. I mass-media ci suggeriscono, in modo martellante, comportamenti corretti: piccoli gesti quotidiani come lavarsi e disinfettarsi le mani, mantenere distanze di sicurezza, evitare gli assembramenti e così via. Eseguiti con costanza e diligenza finiscono per costituire una piccola liturgia che tranquillizza e difende dall’ignoto che ci circonda. L’importante è che ciascuno si assuma le responsabilità che gli competono. Come nonni siamo tenuti, in primo luogo, a infondere fiducia ai nostri nipoti, a rassicurarli che ce la faremo. La famiglia di sua figlia, sta affrontando la minaccia di un contagio che non sempre si trasforma in malattia conclamata, raramente richiede un ricovero in medicina intensiva e ancor più raramente si rivela mortale nel caso, per lo più, di pazienti anziani e già gravati da precedenti patologie.
In questo quadro ipotetico, la paura è giustificata, l’ansia no.
Per controllare l’angoscia che l’attanaglia pensi che le sue nipoti, come tutti i bambini, vivono questi momenti di tensione in conformità allo stato d’animo dei familiari: se i genitori, i nonni e gli zii sono preoccupati ma non allarmati, anche loro si sentono protetti e rasserenati. Da un punto di vista collettivo, l’epidemia ha sempre rappresentato un passaggio d’epoca perché mette in crisi false certezze: come, nel nostro caso, lo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali, lo sviluppo illimitato, la fiducia acritica nelle possibilità delle tecnica, il mito del successo personale. La fragilità, rompendo la corazza del narcisismo, ci unisce e, se accettata ed elaborata, si può trasformare in una forma di solidarietà e di fratellanza. La crisi sarà inevitabile e profonda ma conosciamo i percorsi positivi della resilienza, consapevoli che nessuno basta a se stesso e che ci salveremo insieme, tutti o nessuno.
Finora la diffusione dell’epidemia sembra risparmiare i più giovani, in particolare i bambini. Una salvaguardia naturale che sembra indicare, nel futuro, la direzione da seguire nella difficile navigazione che stiamo affrontando.
Freud in proposito ci rassicura quando scrive: «Possiamo ribadire all’infinito che l’intelletto umano è senza forza a paragone della vita pulsionale, e in ciò avere ragione. Eppure in questa debolezza c’è qualcosa di particolare: la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza. Più e più volte pervicacemente respinta, riesce alla fin fine a farsi ascoltare. Questo è uno dei pochi punti che consentono un certo ottimismo per l’avvenire dell’umanità». (Freud S. (1927), L’avvenire di un’illusione, OSF 10, 482).