Le lingue che portano a Berna

/ 31.08.2020
di Orazio Martinetti

Politica nazionale e conoscenza delle lingue: ogni eletto a Berna, sia francofono che italofono, si ritrova a fare i conti con lo scoglio del tedesco. O meglio: con la «diglossia», termine della sociolinguistica che sta a significare la compresenza di due codici con funzioni diverse; da una parte lo «Schwyzertüütsch», con tutte le sue varianti locali, dall’altro l’«Hochdeutsch» o «Schriftdeutsch». Situazione non rara, anzi comune nelle molte regioni che ancora conservano e coltivano un robusto substrato dialettale. Ma chi ha avuto modo, per studio o per lavoro, di frequentare le comunità d’oltralpe, capisce subito qual è la peculiarità elvetica. Qui la parlata dialettale – per alcuni, «lo svizzero» – non rimane confinato nella sfera familiare o nel colloquio informale, come di norma accade: no, assume dignità di lingua anche nell’amministrazione, negli uffici, nella comunicazione pubblica, persino nelle accademie. Non conosce, se non per sfumature, barriere di ceto o di genere. È sulla bocca di tutti, operai ed avvocati, contadini e professori universitari, banchieri e giornalisti. Nessuno sfugge alla malia della «Mundart»: segno distintivo inconfondibile, marcatore dell’identità elvetica come nessun altro.

Non è una novità. C’è da credere che la questione turbasse il sonno anche dei magistrati ticinesi che dalla metà dell’Ottocento in poi ebbero la ventura di far parte del «Bundesrat», l’esecutivo centrale. Si sa, come testimoniano le lettere, che il primo di questa galleria di personaggi illustri, Stefano Franscini, penò parecchio nelle stanze del Consiglio federale per capire e farsi capire, avendo trascorso i suoi anni di studio a Milano. Più a loro agio invece i successori, in un’epoca in cui la Confederazione iniziava a lasciarsi alle spalle il «Kantönligeist» precedente per costruire/rafforzare l’«esprit suisse», la consapevolezza di essere parte di un’unica famiglia, se non proprio di un’unica nazione. Di qui l’inversione di rotta dei percorsi formativi, non più verso sud, verso l’Italia, ma verso nord, nei collegi e nelle università della Svizzera centrale. Le biografie sono eloquenti, a partire dalle esperienze europee di Pioda. Vennero poi Giuseppe Motta, Enrico Celio, Giuseppe Lepori, Nello Celio, Flavio Cotti, Ignazio Cassis. Osservando i loro iter scolastici, notiamo che tutti frequentarono istituti e accademie d’oltralpe non solo per arricchire il loro bagaglio linguistico, ma anche per impadronirsi degli stili di vita nordici (abitudini, tradizioni, codici comportamentali).

È dunque facile immaginare quale montagna linguistica debba scalare il deputato alle prime armi che arrivi a Berna dalle sponde del Lemano o dalla Svizzera italiana, non tanto nelle aule parlamentari, quanto nelle commissioni e nei conversari più o meno privati che anticipano e accompagnano i lavori. E gli ostacoli aumentano qualora si nutrano ambizioni di carriera all’interno dei gruppi e dei partiti. Prendiamo il caso di Marco Chiesa, il neopresidente dell’Unione democratica di centro. Chiesa padroneggia il francese, ma con il tedesco zoppica. All’indomani del lancio della campagna a sostegno dell’iniziativa per un’immigrazione moderata, il cronista della NZZ ha puntualmente rilevato questa insufficienza: «Chiesa ha svolto il suo intervento esclusivamente in italiano. Al momento delle domande, un giornalista gli ha chiesto se potesse riassumere gli argomenti principali in tedesco. A quel punto è risultato chiaro ciò che Chiesa stesso ammette: per poter sostenere un contraddittorio politico, dovrà migliorare il suo tedesco».

L’ostacolo da sormontare non è di poco conto, soprattutto in un partito come l’Udc, formazione che ha fatto del radicamento socio-territoriale la sua garrula bandiera. In tale contesto, il dialetto occupa una casella fondamentale ed irrinunciabile, bastione eretto a contrasto dell’odiato gergo della casta politica. L’iconografia che esprime è tutta rossocrociata, il patrimonio storico da cui trae linfa risale all’epoca della «difesa spirituale», agli anni cioè della massima esaltazione dei «valori svizzeri», identificati con la ruralità, la semplicità dei costumi, l’autodeterminazione, la collaborazione interclassista. Nelle bacheche demo-centriste non devono mancare il ritratto del generale Guisan, le medaglie vinte alle gare di tiro, le foto in grigioverde. Per contro sono considerati disvalori il cosmopolitismo, il multiculturalismo, ogni fattore allogeno potenzialmente corruttore delle usanze e della religione dei padri, e naturalmente gli intellettuali non allineati, bersaglio polemico costante delle campagne Udc.

Chiesa dovrà dunque trovare il modo di far breccia in questa mentalità, per avvicinarsi alla gente («bi de Lüt») come uno di loro, senza insistere troppo sulle particolarità locali, sui bisogni e le sensibilità delle minoranze. Dovrà insomma farsi largo in una comunità di militanti che ha fatto dello «Stammtisch» il suo centro di gravità politica. Bella impresa.