Le lezioni della storia (e di Rampini)

/ 07.12.2020
di Aldo Cazzullo

Il bello dei libri di Federico Rampini è che a leggerli si impara sempre qualcosa. Non si è confortati in quel che già si pensa, non ci si sente ripetere quel che già si sa; si scoprono cose nuove; e magari si apprende che quel che si sapeva, o si credeva di sapere, è in realtà falso.

Facciamo un solo esempio, tratto dall’ultimo saggio di Rampini, I cantieri della storia, appena pubblicato in Mondadori e di cui «Azione» ha anticipato molte parti in una serie pubblicata nell’estate. In tutto il mondo c’è molto interesse attorno a Kamala Harris, e anche qualche equivoco. Il fatto di avere un padre giamaicano e una madre indiana ne fa oggettivamente una figura nuova nel panorama politico americano, a lungo dominato da maschi bianchi anglosassoni protestanti. Però la nuova vicepresidente non è figlia dei ceti popolari, non è simbolo di un prodigioso riscatto sociale. La madre, Shyamala Gopalan, viene da una famiglia di bramini, al vertice del sistema indiano delle caste. I genitori (i nonni di Kamala) la mandarono a studiare all’università di Berkeley, in California, una delle più prestigiose del mondo.

Come ricorda Rampini, tra i 50 mila immigrati in America che vengono dalla casta nobiliare dei bramini del Tamil Nadu, i cosiddetti «tambram», ci sono due premi Nobel, il capo di Google Sundar Pichai, l’ex chief executive della Pepsi Cola Indra Nooyi. Insomma, non sono immigrati con la valigia di cartone, né migranti scesi dalle barche; sono l’élite della globalizzazione, con grandi meriti e grandi opportunità. Il padre della Harris è invece un economista importante, che non va molto d’accordo con la figlia. I due hanno pure litigato qualche anno fa, quando lei disse che essendo mezza giamaicana «ovviamente» da ragazza aveva fumato marijuana; lui si risentì, la accusò di aver usato uno stereotipo razzista sui giamaicani, fece intendere che Kamala usava le proprie origini come uno stratagemma per eludere una questione che poteva diventare imbarazzante.

Sia chiaro: questo non toglie nulla alla freschezza e all’interesse della personalità della prima donna a diventare presidente degli Stati Uniti d’America. Ma aiuta a evitare una retorica che è sempre nemica della verità. Anche perché – ricorda Rampini - esiste pure il razzismo di chi ha bollato sia Kamala Harris sia Barack Obama come «mezzi neri»: quasi l’origine mista li rendesse sospetti e incapaci di assumere le posizioni politiche radicali che una parte della sinistra americana si attenderebbe da loro.

I cantieri della storia è il racconto delle grandi ripartenze nella vicenda umana, in particolare (ma non solo) nel Novecento. Il New Deal con cui Franklyn Delano Roosevelt portò l’America fuori dalla grande depressione è un precedente così potente, che oggi lo stesso termine viene riproposto da chiunque intenda lanciare riforme progressiste ed espansive; non a caso si parla di Green New Deal. Lo stesso accade per il Piano Marshall, invocato di continuo quando si vuole auspicare un intervento coraggioso dopo una catastrofe; anche se – come spiega bene l’autore – il Piano Marshall, quello vero, fu molto più piccolo di come lo pensiamo, e nello stesso tempo molto più intelligente. Dalle macerie della Seconda guerra mondiale rinasce non solo la Germania, ma la stessa Francia; che fatica a rinunciare all’impero coloniale, ma nonostante la lunga serie di rese – dalla tragica primavera del 1940 all’assedio di Dien Bien Phu – è protagonista della costruzione europea. «Il primo dei cantieri asiatici che preparano la nuova centralità dell’Oriente è in Giappone – ricorda Rampini -: un caso, unico nella storia, di nation-building riuscito grazie a una dura occupazione militare».

Della Cina, dove ha vissuto a lungo, Rampini racconta il riscatto dopo la Rivoluzione culturale – «di fatto una guerra civile» – e dopo il massacro di piazza Tienanmen («un colpo di Stato militare contro una parte di popolazione inerme»).

Tuttavia, prima della rinascita, viene la caduta. Il prototipo di ogni decadenza è il crollo dell’Impero romano; e da qui il libro prende avvio. Da sempre gli Stati Uniti d’America guardano all’antica Roma come all’archetipo del loro stesso impero. E quindi dovrebbero stare – loro, ma anche noi europei – molto attenti al fenomeno che accompagnò e in parte causò il declino e la caduta di Roma: la fuga dallo Stato, il rifiuto di partecipare alla vita pubblica, la perdita di interesse per la politica, l’infedeltà fiscale, e anche il rigetto dei doveri militari.  
Ricostruzione non è sinonimo di rinascita; ad esempio, quella tentata dopo la guerra civile americana fallì; il Sud rimase più povero del Nord, e gli ex schiavi neri non vennero inseriti nella vita pubblica, non poterono votare né essere eletti, furono tenuti ai margini.

E le tensioni di oggi ci ricordano che la questione razziale negli Stati Uniti non è certo risolta. I cantieri della storia possono produrre il riscatto; ma non è detto. Tutto dipende, come sempre, da noi. È questa la lezione del bellissimo libro di Federico Rampini.