Le faccine che hanno cambiato la comunicazione

/ 10.08.2020
di Aldo Grasso

Il 17 luglio si svolto il World Emoji Day, la giornata dedicata alle «faccine» che ci permettono di esprimere tanti stati d’animo via chat e social. L’iniziativa è nata nel 2014 dall’idea di Jeremy Burge, uno storico delle emoticon e fondatore di Emojipedia, sito web che raccoglie e cataloga tutte le emoji. In questo periodo di pandemia e lockdown, si sono aggiunte diverse faccine a tema, come quella di Twitter che ha sensibilizzato sul lavaggio delle mani e quella di Facebook che ha raffigurato un abbraccio.

La pandemia ha però avuto un impatto anche su questo settore: le nuove emoji già programmate, e in arrivo il prossimo autunno, non subiranno modifiche, mentre le emoticon previste nel 2021 non ci saranno: slitteranno al 2022. A darne notizia nelle scorse settimane è stato il consorzio Unicode, che si occupa della loro standardizzazione e si basa sul lavoro di volontari, che ha subito delle modifiche durante la pandemia.

Quest’anno, tuttavia, arriveranno nelle mani degli utenti le nuove emoji legate alla versione 13 dello standard. Si tratta di 117 pittogrammi già noti, tra cui la mano con i polpastrelli uniti nel gesto «ma che vuoi?», l’allattamento con biberon, la bandiera transgender e una carrellata di nuovi oggetti, cibi e animali.

Il termine emoticon nasce dall’unione di emotion e icon. La data di nascita, ormai riconosciuta universalmente, è il 1982. In quell’anno, infatti, l’informatico Scott Fahlman suggerì che nel sistema messaggistico della Carnegie Mellon University si sarebbero potuti usare :–) e :–( per distinguere le battute dalle affermazioni. Le emoji sono invece nate tra il 1998 e il 1999, create da una società di comunicazione giapponese, ovvero la NTT DoCoMo (oggi è l’operatore predominante in Giappone nel campo della telefonia mobile). L’etimologia della parola emoji arriva dall’unione di «e» (immagine) + «mo» (scrittura) + «ji» (carattere). La traduzione di emoji è «pittogramma». Sono immagini usate per sostituire le parole e raffigurare il significato dei vocaboli.

Emoji ed emoticon possono aiutare a semplificare il linguaggio e la sua comprensione. Per capire il perché, bisogna partire dal fatto che oggi si comunica sempre di più tramite scrittura (basti pensare all’uso massiccio che facciamo di chat o social network). Questo ha creato la necessità di accompagnare le parole scritte con dei segni, con lo scopo di diminuire il rischio di fraintendimenti. Ecco allora che le faccine diventano fondamentali per chiarire le nostre intenzioni.

Come ha scritto Stefano Bartezzaghi, «Le vecchie emoticon, fatte solo di segni già presenti su una macchina da scrivere (parentesi, due punti, uguale, trattino...), sono nate agli albori della comunicazione personale telematica per l’esigenza di segnalare, per esempio, l’ironia». Che prima o poi sarebbe successo l’aveva già previsto Jean-Jacques Rousseau. Se scrivo «Sei un bastardo» la frase fa un certo effetto anche se l’amico che la riceve sa benissimo che non parlo seriamente. Se scrivo «Sei un bastardo:-)» non può prendersela in nessun caso. Le emoji traducono i segni grafici in segni più propriamente iconici: sono emoticon che non devono più nulla alla scrittura alfabetica e ricordano casomai quella lettera che Lewis Carroll scrisse a una giovane amica, disegnando un occhio per dire «Io» («eye» = «I»), e simili.

La rilevanza odierna delle emoji nell’evoluzione della comunicazione virtuale è innegabile, a tal punto che nel 2015 l’Oxford Dictionary ha scelto come parola dell’anno proprio una di queste: «The face with tears of joy». Questo ci fa ragionare sul fatto che una emoji sia stata considerata al pari di una parola. E se è così, significa che il linguaggio è davvero cambiato, così come è cambiato il nostro modo di comunicare: attraverso le emoji, è sicuramente meno mediato da parole e più da simboli, il che potrebbe sembrare un’involuzione. E forse lo è, ma ciò che è più interessante è il ritorno al figurato.

Possiamo parlare di un nuovo Esperanto digitale che ci permetta addirittura di comunicare senza conoscere la lingua dell’interlocutore? Ogni tanto nasce questo sogno: in passato si pensava che la fotografia prima e la televisione poi potessero svolgere questo ruolo di lingua franca, attraverso cui fosse possibile comunicare con persone di ogni lingua e cultura. Poi si è scoperto che la fotografia non può essere linguaggio universale perché si presta a molte letture, a molte interpretazioni. E la tv esiste perché c’è un sonoro che la ancora al suo contesto.

Il critico americano Charles Finch sul «New York Times» ha osservato che «le comunicazioni, dietro un flusso incessante di dati, si sono evolute continuamente mirando a funzioni cerebrali sempre più primitive»; srotoliamo il testo infinito dei social come un papiro composto dai pochi ideogrammi-emoji, e la letteratura sembra come messa a riposo.

Ecco di nuovo la vera domanda di fondo: le «faccine» sono un’evoluzione del linguaggio o una sua regressione?