Le esequie solenni del Tuca-Tuca

/ 12.07.2021
di Ermanno Cavazzoni

La cosa sconvolgente nella morte di Raffaella Carrà è stata la riservatezza con cui la più popolare delle showgirl (prima di lei si sarebbe detto «soubrette») ha tenuto nascosta la propria malattia. Nessuno ne sapeva niente, neanche gli amici più stretti. Ma la cosa ancora più sconvolgente è, in opposizione rispetto a quella riservatezza, l’eco di magniloquenza con la cornice solenne delle commemorazioni e del triplice corteo funebre degno di un capo di Stato o di un pontefice.

Un caro amico regista di teatro, negli anni 80, definiva raffaellacarrà chiunque fosse un mediocre di successo. In effetti Raffaella non era un genio della danza e ballava, non era giornalista ma intervistava, non brillava nella musica ma cantava, non era un’attrice ma recitava, non era particolarmente bella ma seduceva il popolo televisivo maschile e non solo maschile. Questo suo non eccellere in niente, di cui sembrava consapevole, ne aumentava la simpatia: la gente si riconosceva in quella sua aurea mediocrità domestica, affabile, allegra, dietro cui si celava una professionalità maniacale.

La simpatia e la leggerezza un po’ sfrontata erano i suoi veri pregi visibili (5+), quello invisibile era il lavoro. Tanto per dare l’idea, ricordo che quel mio amico definiva Francesco Alberoni (4–) la raffaellacarrà della sociologia e Alberto Bevilacqua (5–) la raffaellacarrà della letteratura almeno quanto Raffaella Carrà era la raffaellacarrà della televisione. Per lui ogni settore artistico aveva la sua raffaellacarrità… Certamente era un modo un po’ elitario, forse snobistico e grossolano, per distinguere il talento commerciale dal genio dell’arte che se ne frega del riscontro e del consenso.

Era un tempo in cui non ci si vergognava di tenere separati il cosiddetto alto e il basso-pop: il postmoderno banalizzato non aveva ancora irrorato il pensiero comune degli opinionisti e gli intellettuali non dovevano ancora fare l’occhiolino al mainstream per apparire «à la page» e a loro volta simpatici. Via via la fenomenologia di Mike Bongiorno, proposta da Umberto Eco, che era un modo di leggere (allora si diceva «decodificare») il mondo della comunicazione televisiva, fu presa molto (troppo?) sul serio e Mike venne accolto come un mito non solo dalla casalinga di Voghera ma anche dai professionisti della cultura e dalle istituzioni (con tanto di funerali di Stato).

«Sdoganare» divenne il verbo più praticato e Raffa a poco a poco fu promossa al grado di spirito-guida dell’antropologia nazionale. Certo, non aspirava a tanto, conservava una sua autenticità e per questo è rimasta simpatica, a differenza di alcune sue eredi, regine pop fino alla «influencer» social Chiara Ferragni, ultima aggiornatissima esponente di quel filone capace di trasformare in oro la propria mediocrità. Le ispirate orazioni, i ricordi e i contriti elogi funebri di oggi per Raffa sono comprensibili: è vero che il suo ombelico nudo e le sue cosce sincere hanno contribuito allegramente a liberare e rimodellare l’immaginario sessuale italiano in anni di proibizionismo cattolico.

Ma è anche vero che «Carramba che sorpresa» e il tormentone meridiano della conta dei fagioli erano quanto di meno edificante una televisione di Stato abbia mai offerto ai suoi abbonati. L’icona, il mito, il simbolo. Non sarà francamente troppo? È sempre una questione di misura e di distinguo nell’epoca dell’eccesso e della confusione, dove tutto è uguale a tutto, ma tutto è ancora più uguale (come i maiali di Orwell) se ha successo. L’epoca in cui Fedez (2) può assurgere a «opinion leader» (il Bobbio dei nostri anni?) dicendo quel che i suoi followers si aspettano che dica. Le differenze tra Raffa e Chiara Ferragni (2 anche all’altra metà della Ditta Ferragnez) non sono da sottovalutare: il lavoro da superprofessionisti che in un caso c’era e nell’altro no, così come l’allegria da una parte e la cupa scaltrezza mercantile dall’altra.

Ma infine la differenza più importante resta la riservatezza: per la showgirl del Tuca-Tuca e del caschetto biondo-platino l’esibizione era sul palco e/o sullo schermo; per gli influencer di oggi tutto va messo in piazza, anzi on line, 24 ore su 24, tutto ciò che contribuisce ad accrescere il gradimento social e dunque i milioni di incasso: la cucina di casa, la colazione, la cena, il bagno, il bimbo in culla, la stanzetta, la pappina, i pannolini, le mutande, il regalo di compleanno, il braccialetto, il diamantino, il vestito nuovo, lo smalto delle unghie, le lacrime, i desideri… Una questione di stile? Non solo.

Intanto, al motto «io sono il mio business», l’influencer inglese Carla Bellucci (1) annuncia che partorirà in diretta sul sito OnlyFans per 12 mila euro. Basterà non molto di più, tra poco, perché qualcuno accetti di proporci il suo cancro autopromozionale e di agonizzare in streaming. E non sarà solo questione di stile.