Sarà perché son vecchio, ma mi sono ritrovato imbambolato davanti a una fotografia di agenzia. Ritrae un militare in tenuta d’assalto, seduto contro la parete della carlinga quasi vuota di un cargo C-17, uno di quei giganteschi aerei impiegati dalle forze americane (uno dei primi a partire aveva a bordo oltre 800 persone in fuga) per soccorrere i cittadini decisi a lasciare la loro patria, tornata in mano ai talebani. Il soldato tiene in braccio un neonato afgano che dorme, ignaro del destino che gli si para davanti e avvia per lui una vita colma di interrogativi, se non di incognite e di sofferenze. Avvolto in pochi panni, quel neonato non ha nome, solo un numero sulla fronte, e con quel numero è stato affidato alla disponibilità di chi accoglie e aiuta fuggiaschi, quindi alla provvidenza rappresentata in quel momento dalle mani di un soldato e da un enorme cargo C-17 che quasi tutto per lui vola via da Kabul. Nella mente si intersecano congetture e speranze. Soprattutto una: quella che questo bambino tra dieci, venti o trenta anni riesca, magari tornando in patria, a guardare senza provare tristezza questa sua prima immagine di profugo e a stilare un bilancio positivo e possibilmente anche felice.
Sempre perché sono vecchio, ho subito collegato quella fotografia con una notizia letta pochi minuti prima: «La ministra della giustizia Karin Keller-Sutter difende la decisione del Consiglio federale di non accogliere contingenti di cittadini afgani in fuga: al momento – precisa la consigliera federale in interviste pubblicate da testate di CH Media – non c’è un fuggi fuggi di massa dall’Afghanistan». Questa imbarazzante dichiarazione conferma l’attualità del monito lasciato da Dostoevskij ne L’idiota: «La compassione è la più importante e forse l’unica legge dell’umanità intera». Io spero che nel frattempo qualcuno abbia fatto pervenire alla nostra ministra della giustizia la foto di quel neonato e che lei l’abbia poi mostrata a colleghi e subalterni, implicati almeno quanto lei in quell’insensibile comunicato. Si potrà obietterà che anche la Svizzera accoglierà altri profughi afgani, oltre ai 14’000 della diaspora già presenti; di sicuro quelli che hanno collaborato con la nostra diplomazia, ma anche tanti chiamati da parenti o aiutati dalle organizzazioni umanitarie che subito si sono attivate per soccorrere chi giungeva nelle basi americane dopo aver superato gli infernali cerchi dell’aeroporto di Kabul. Difficilmente però si riuscirà a cancellare l’impressione che le nostre autorità, ancora una volta, hanno scelto di ripararsi dietro l’ombrello dei protocolli e dei dettami della giustizia, quando invece avrebbero potuto ascoltare e seguire la voce della disponibilità e della solidarietà, come hanno poi chiesto di fare il partito socialista e migliaia di cittadini.
Le situazioni messe a confronto, quella del neonato afgano e quella del governo svizzero, in definitiva ritraggono le due facce contrastanti e antitetiche della compassione. La prima, quella che ognuno di noi prova per il profugo neonato, è un sentimento di pietà che si richiama alla carità, una virtù oggi decisamente marginalizzata, spesso anche derisa. L’altra compassione, quella collegata all’atteggiamento e alle dichiarazioni delle nostre autorità, è invece alimentata dalla commiserazione per chi direttamente o indirettamente fa prevalere l’indifferenza nei confronti degli inermi e di chi ha bisogno. Non è una conquista dei nuovi filosofi: già Tucidide – usando due parole diverse per la compassione per segnalare come essa sia un’emozione controversa – ci ha insegnato che «È giusto che si conceda la compassione a coloro che sono in condizioni eguali alle nostre, e non a quelli che non si mostreranno a loro volta compassionevoli e che per necessità sono sempre nemici».
Aggiungo un’ultima «remarque»: il soldato ritratto sul C-17 reca sulla sua tuta non la bandiera americana (come ci si aspetterebbe) ma quella della Norvegia. Orbene, se le mie nozioni non sono del tutto scadute, anche la Norvegia non fa parte dell’Unione europea, ma al contrario della Svizzera ha subito aderito alla Nato e una ventina di anni fa ha deciso anche di partecipare alla missione in Afghanistan. Nonostante abbia un esercito che non supera le 30’000 unità, Oslo è in grado di guardare oltre la nostra obsoleta condizione di neutralità armata, perciò di essere in prima linea e di operare con forte anticipo a livello umanitario schivando non solo i pericoli dei nemici, ma anche i trabocchetti della politica e le piroette dei governanti. Certo, anche in Norvegia qualcuno si sarà interrogato sulla legittimità dell’operazione di salvataggio di un neonato o sulla liceità dell’immediata richiesta di adozione presentata da una Ong. Questo però non muta la sostanza e soprattutto non scalfisce le differenze fra la presenza (militare ma umanitaria) dei norvegesi e la dichiarazione gelidamente protocollare del governo elvetico.
Le due facce della compassione
/ 06.09.2021
di Ovidio Biffi
di Ovidio Biffi