Proponiamo un pensiero di vicinanza ai nati di questo giorno. Compiere gli anni l’11 settembre, soprattutto dopo il 2001, è un po’ come essere stato chiamato Adolfo prima dell’ascesa al potere di Hitler e tenersi addosso quel nome tutta la vita ben oltre la fine della Seconda guerra mondiale: non puoi farci nulla, ma ti porti incolpevolmente addosso le suggestioni automatiche del lato oscuro della storia.
La gente ti guarda e ridacchia: ti chiami proprio Adolfo? Benito? Giuda? Sul serio sei nato (o, in non meno drammatica alternativa: ti sei sposato, farai l’esame, sarai operato) l’11 settembre? E giù battutine e colpetti di gomito. Tornando alla data di oggi, quindi, in alto i calici e fervidi auguri con un plus di sincera solidarietà a chi festeggia un compleanno concomitante con la peggiore tragedia terroristica d’Occidente degli ultimi decenni.
Eppure, ragionando con quel minimo di freddezza che dovrebbe caratterizzare una popolazione mediamente istruita come la nostra, simili accostamenti spuri non dovrebbero esistere. Partiamo dai nomi. Mica perché ti chiami Gesù (o meglio: Jesus, come usa nel mondo ispanico) compi automaticamente miracoli o perché ti chiami Josif deporti di default fette di popolazione da una parte all’altra del Paese, come faceva il tuo omonimo Stalin. Intendiamoci, ogni nome ha o dovrebbe avere un senso intrinseco e una singolare energia, quella della bisnonna Teresa da cui prendi il nome, per esempio. O una sua poesia, se ti chiami Fiordaliso, Lauro o Aurora. Tutto questo, nel bene e nel male, contribuisce a forgiare le nostre identità. A volte con effetti comici incalcolabili al momento del parto. Ci sono nomi di persone che all’anagrafe suonano come dolcemente diminutivi: Celestino, Giulietto, Rosina, che da adulti magari pesano 150 chili e superano il metro e novanta. Alla stessa stregua chissà quanti Adolfi si sono rivelati, in fin della fiera generosi, altruisti, dediti all’eroica difesa dei deboli, dei diversi e dei poveri. Nomi e date non devono trasformarsi in prigioni.
La superstizione più radicata, comunque, resta legata ai numeri. Non vorremmo scomodare la Bibbia, che comunque è stata fonte di ispirazione sulla «bontà» o «cattiveria», di certe cifre (a partire dai tredici apostoli, contando il traditore Giuda attorno al cenacolo). Qualche anno fa si è diffusa la leggenda metropolitana del «Club 27» (anche detto «27 Club» o «Club of 27»), un’invenzione – ahimé – giornalistica intenta a dimostrare che alcuni artisti di prima grandezza, in prevalenza cantanti rock, erano morti «casualmente» all’età di 27 anni. Tra loro, nel breve periodo tra il 1969 e il 1971: Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. Tuttavia, l’espressione fu inventata più di vent’anni dopo, nel 1994, quando qualche topo di redazione si deve essere reso conto che anche Kurt Cobain, frontman dei Nirvana morto il 5 aprile del 1994, se n’era andato a quell’età. Inevitabile, da allora, che ogni volta che un artista lascia il mondo terreno a 27 anni, come Amy Winehouse nel 2011, rispunti quell’antica «maledizione».
L’angoscia dei numeri ti insegue anche nella vita comune. Se arrivi all’improvviso in un albergo con un’unica camera libera, è la 13, o si trova al tredicesimo piano. C’è gente, che anche dopo aver conseguito un master in fisica nucleare, oppone imbarazzati rifiuti o accetta col mal di pancia, stringendo in tasca amuleti a forma di cornetto o avviando inconfessabili macumbe interiori anti-malocchio. Sui voli di alcune compagnie aeree hanno abolito il posto 13. Sospesi tra il Cielo e la Terra si fa molto caso a quel numero lì.
Perché avremo anche studiato sotto le insegne illuministiche della dea ragione e delle scienze dure e confideremo nelle protezioni ultraterrene promesse dai libri sacri, ma la superstizione è un gatto selvatico che si infila dappertutto, anche nelle menti apparentemente più razionali dell’universo. Conosco docenti universitari e perfino (rari) prelati che consultano di nascosto gli oroscopi sui rotocalchi, si fan leggere la mano «da una brava», stanno attenti a mettere in terra appena svegli il piede destro per evitare che la giornata parta balorda e ricorrono a guru spirituali poco più attendibili di Wanna Marchi. Del resto, durante il Covid sono risorte ricette da fratacchioni e imbonitori girovaghi dei secoli scorsi, come l’ottimo Aceto dei Quattro Ladroni, usato per curare ogni magagna non solo fisica pure in Ticino. Gratta gratta, sotto la superficie dell’ultra modernità scientifica, la scaramanzia ci mette poco a prevalere sulla razionalità.