Servono o non servono le giornate speciali, a sostegno di una buona causa, proposte dall’affollato calendario delle celebrazioni mondiali? Un certo scetticismo si giustifica, registrando la crescente indifferenza che spetta, ormai, a questo genere di crociate ufficiali. Per l’opinione pubblica sono troppe e su temi che sembrano lontani e persino astratti. Anche se, a volte, toccano la nostra quotidianità. Come, recentemente, nel caso dell’Impact Journalism Day, dedicato, il 24 giugno scorso, agli effetti negativi di un giornalismo che privilegia le cattive notizie favorendo una visione pessimistica della realtà. Secondo l’ideatore della giornata, Ulrik Haagerup, direttore dell’emittente radiotelevisiva pubblica danese, bisogna uscire da questa nefasta spirale, dove l’attualità si associa al reato, e dare avvio, invece, a un giornalismo, cosiddetto «costruttivo», dove l’eventuale denuncia di un problema comporta la proposta dei rimedi per risolverlo. Insomma, la cattiva notizia non è fine a se stessa, diventa il pretesto per abbinarla a una buona. A questo punto, per gli addetti ai lavori mediatici, l’impegno supera i limiti di una prestazione professionale per assumere tratti d’ordine morale, paragonabili a quelli di un missionario. Non più cronisti o commentatori di eventi reali, bensì evangelizzatori.
Quale, in effetti, è Ulrik Haagerup, classica figura di riformatore utopista, convinto di battersi per la giusta causa, schierato sul fronte di un’informazione al servizio di un mondo migliore, grazie alla diffusione della «buona novella» che rassicura, conforta, promette. Ora, questo programma, che poteva sembrare ispirato all’ingenuità, una certa eco l’ha avuta. L’invito a celebrare l’Impact Journalism Day era stato raccolto da una cinquantina di testate di rilievo («TagesAnzeiger», «La Tribune de Genève», «La Stampa», «Le Monde», «El Pais», «USA Today», «Haaretz»: per citare quelle a noi più familiari), che si sono mobilitate per dimostrare che il giornalismo può vivere soltanto di buone notizie: almeno per un giorno. Infatti, passato il 24 giugno, la parentesi virtuosa si è chiusa. I media sono tornati a svolgere la loro funzione naturale di specchio dei tempi. Cioè di interpreti, più o meno corretti e attendibili, dell’attualità dove, in ogni ambito, pubblico e privato, avvengono fatti che si traducono in una miscela di notizie buone e cattive.
Del resto, l’idea del giornalista olandese, è tutt’altro che nuova. Ha ormai alle spalle una serie di tentativi, in parte falliti e in parte ancora in corso. Magari con un discreto successo. Come nel caso del «Good News Liverpool», creato e prodotto da Rebecca Keegan, con il proposito di offrire ai suoi concittadini un’alternativa necessaria, rispetto alle cupe informazioni diffuse da giornali e reti televisive. Quindi, non si parla di terrorismo, di Brexit, di incendi, di migranti, per far posto a notizie positive, del tipo un taxi sociale per pendolari e turisti, una scuola di idee a Nairobi, progetti per sfruttare il vento prodotto dai Tir, e naturalmente , annunci di concerti, giochi. La pubblicazione, va precisato, esce una volta al mese. Ma già nel 1994 uno dei primi a sfruttare l’idea della buona notizia vincente, l’americano Daniel Marpel, con «The Joy Gazette», che, smentendo l’ottimismo del fondatore, ebbe la vita breve.
In altre parole, il tentativo di affidare alle buone notizie un ruolo etico, addirittura salvifico per le sorti del mondo, doveva rivelarsi non solo difficile ma persino controproducente. Con derive sul piano politico, favorendo interventi censori. Il fascismo vietava la pubblicazione di notizie di suicidi. Nell’era staliniana, il tema del divorzio era tabu, per non parlare dell’omosessualità. D’altro canto, e ne siamo sempre più spettatori sconcertati, proprio nelle nostre società liberali, la cattiva notizia ha creato un culto, attraverso un giornalismo sciatto, volgare, che sfrutta gli elementi peggiori dell’epoca.
Infine, c’è un altro aspetto dell’informazione che ci concerne, da vicino, quali cittadini di una piccola regione dove, ogni tanto, anche l’attualità dà segni di stanchezza. Mancano gli avvenimenti per riempire i nostri quotidiani televisivi e, allora, si ricorre alla non-notizia: gite campestri con spuntini nostrani, bambini in spiaggia o sulla neve, costretti all’intervista, bancarelle con cianfrusaglie pseudoartigianali, insomma il niente. Tanto da giustificare, nello spettatore, una voglia di notizie, buone o cattive che siano, insomma vere.