L’avvento dell’animale asociale

/ 28.09.2020
di Orazio Martinetti

Tra qualche anno, c’è da scommetterci, le facoltà di lettere delle università proporranno seminari sulla «letteratura della pandemia»: diari, testimonianze, riflessioni, scenari, previsioni. Il virus ha provocato disastri e lutti, ma non ha fiaccato la vena creativa di romanzieri e saggisti; anzi, li ha perfino spronati, permettendo loro di raccogliere le idee in tutta tranquillità, al riparo da tentazioni e distrazioni. Vedremo se da tali atmosfere cenobitiche uscirà in futuro qualche capolavoro, destinato a rimanere nelle antologie.

Nel frattempo la pandemia ha modificato il nostro paesaggio visivo e le nostre abitudini. La dotazione abituale di ognuno (chiavi, telefonino, occhiali) si è arricchita di un accessorio che si riteneva patrimonio esclusivo dei popoli asiatici: la mascherina. Ora accompagna la nostra vita come una seconda pelle in varie fogge. Mascherine chirurgiche perlopiù, appese all’orecchio, arrotolate al gomito, abbassate a gorgiera… «sempre sull’uomo» (e sulla donna).

Ma nel catalogo delle raccomandazioni antivirus figurano anche altri due provvedimenti fondamentali: il distanziamento e l’igiene personale. Misure probabilmente meno sgradite della fastidiosa e sudatissima mascherina; anzi, agli occhi di molti, persino benvenute. Tenere le distanze in un microcosmo parentale e lavorativo ch’era andato concedendosi eccessive vicinanze e confidenze può non dispiacere, soprattutto quando c’è di mezzo uno squilibrio gerarchico.

Anche le raccomandazioni igieniche sono da considerare salutari. Finalmente – questo perlomeno l’augurio – avremo cucine di ristoranti e pizzerie più linde, gabinetti pubblici meno lerci, mani lavate accuratamente con acqua e sapone, come prescrivevano i vecchi trattati di economia domestica: «l’acqua, come l’aria e la luce, è uno degli agenti indispensabili di salute, di nettezza, quasi di dignità morale...», osservava Erminia Macerati nel suo Casa nostra (Istituto Editoriale Ticinese, 1931).

Ma ecco il rovescio della medaglia, il lato meno luminoso: il confinamento che si trasforma in crescente solitudine, la distanza che scava fossati tra le persone. Il lavoro a domicilio o agile («smart») può anche funzionare sul breve periodo, o in caso di emergenza, ma se esercitato in modo continuativo diventa una gabbia, un luogo dell’asocialità in cui il dialogo avviene solo attraverso la mediazione di uno schermo. Non tutti riescono a reggere questo distacco dall’universo lavorativo con i suoi riti e la sua rete relazionale, anche se alcune categorie già operano in questa modalità. Si pensi inoltre a quell’agenzia di socializzazione per eccellenza che è la scuola, ai rapporti che si instaurano tra gli alunni e tra gli alunni e il docente: un sistema di relazioni complesso, che nelle sue implicazioni psico-sociali va ben oltre l’insegnamento, gli esercizi, le verifiche, il voto. La tecnologia ha certamente rappresentato un’ancora di salvezza nelle fasi critiche dell’epidemia, ma pensare di elevare la didattica a distanza (DAD) a metodo universale è impensabile: potrà dare anche risultati utili sul piano dell’apprendimento, ma non sul lato emotivo degli allievi, che proprio negli anni delicati dell’infanzia e dell’adolescenza sperimentano la bellezza dell’incontro con l’altro, i primi sussulti sentimentali, stringendo spesso con i compagni di classe amicizie destinate a durare tutta la vita. Per chi abita nelle valli dell’alto Ticino, o nei villaggi discosti, la DAD si tradurrebbe in un doppio isolamento.

L’era digitale in cui siamo entrati negli ultimi anni è carica di promesse. Assicura, come un tempo le ideologie salvifiche, una sorta di paradiso in terra, in cui il lavoro non sarà più sinonimo di calvario, ma un’attività flessibile, decentrata, quasi ludica. Quante volte la pubblicità ha proposto casalinghe sorridenti impegnate al computer con in braccio il pargolo… La realtà, come si è visto, è ben diversa, e proprio le donne hanno dovuto in questi mesi sobbarcarsi il doppio fardello di madre e lavoratrice tra le pareti domestiche, senza pause ed orari. Ancora una volta si è potuto toccare con mano l’ambivalenza della tecno-scienza: un cammino che non è mai unidirezionale e che non produce solo dipendenti felici in un clima di eterna vacanza.

Al netto della retorica, sempre abbondante in questi casi, bisognerà monitorare attentamente l’impatto che le nuove tecnologie avranno sulle diverse fasce della popolazione, colte nella loro quotidianità: i giovani, gli impiegati statali e parastatali, gli indipendenti, gli anziani (segregati due volte: dai malanni della vecchiaia e dai lunghi mesi d’incolpevole reclusione). Sempre più il digitale ci sta trascinando in una sorta di «Wunderkammer», una stanza delle meraviglie in cui però domina la spersonalizzazione dei rapporti; sempre più (Aristotele ci perdoni) ci sta insomma trasformando in «animali asociali», monadi al servizio di poteri lontani, freddi e invisibili.