Ironia della sorte. Quando, nel 1936, Cesare Pavese pubblicò la sua prima raccolta di poesie, la critica ufficiale, per motivi anche politici, la ignorò. Doveva, invece, spettare un’imprevedibile fortuna postuma al titolo di quel volume: Lavorare stanca. È, infatti, diventato una battuta che appartiene, ormai, al linguaggio quotidiano. Per lo più pronunciata in tono scherzoso o ironico, si rivolge a un fannullone, o presunto tale, di nostra conoscenza. Non di rado, la qualifica di scansafatiche concerne un collega o un superiore, circola insomma negli ambienti di lavoro. Ma in base a quali criteri viene affibbiata: una valutazione oggettiva di prestazioni e comportamenti, o sotto la spinta di rivalità, antipatie o pregiudizi di stampo nazionalpolitico?
L’interrogativo rimane aperto, soprattutto, quando dall’ambito privato, ci si sposta in quello pubblico, addirittura sul piano internazionale. Proprio qui «lavorare stanca» assume un ben altro peso, diventando sinonimo di una condanna morale o razziale che colpisce intere popolazioni e nazioni. In proposito gli esempi si sprecano. Risuonano nei discorsi da bar, tipo «se sono sempre in condizioni di sottosviluppo, è per via della poca voglia di lavorare». In apparenza, banalità, vecchi pregiudizi, che tuttavia hanno sempre corso. Persino nell’evoluta Europa, come avviene a Bruxelles, si continua a stabilire una linea di demarcazione nord-sud, cioè laboriosi-fannulloni, che perpetua una visione custodita nell’immaginario collettivo, per natura conservatore. A prima vista, questa distinzione fra paesi efficienti e paesi pigri, funziona: la Svezia non è la Grecia, lassù si lavora sodo, laggiù ci si appisola sotto la palma.
Ora questi stereotipi a uso turistico vanno aggiornati. Anche il lavoro, sia nelle sue forme materiali sia nei suoi effetti psicologici, culturali e sociali, sta subendo incessanti trasformazioni. Non da ultimo sotto l’urto della pandemia che ha ridimensionato, o addirittura cancellato, l’importanza dell’ufficio. Era stato, per decenni, il più classico, persino sacrale luogo di lavoro, addirittura il simbolo dell’efficienza finanziaria e organizzativa, fiore all’occhiello di un elvetismo, fondato sul culto del lavoro. Al punto da suscitare critiche e ironie da parte degli osservatori stranieri: «Ma voi svizzeri, quando mai vi divertite?».
La risposta è ormai visibile a occhio nudo, basta guardarsi attorno. Ed è confermata da dati statistici che definiscono la fisionomia di un’altra Svizzera, dove appunto si è imparato, eccome, a divertirsi. Al culto del lavoro si è affiancato quello del tempo libero. I cittadini l’hanno conquistato pazientemente, pezzo su pezzo, dopo l’introduzione, dell’AVS e delle casse pensione aziendali obbligatorie, attraverso continue concessioni: il sabato libero, le ferie da 3 a 4, 5 settimane, la durata del lavoro settimanale calato di un terzo, rispetto al 1950. Di pari passo, le abitudini e le mentalità si sono adeguate. E non ci si stanca soltanto lavorando ma sempre più spesso svagandosi, fra sport e weekend magari a Londra o Berlino. La dice lunga la «sindrome del lunedì», che affligge gli impiegati che stentano a ritrovare il ritmo dell’efficienza.
Il 19 luglio scorso, sul domenicale della NZZ, è comparso un titolo rivelatore: «Più lavoro? No grazie». Si riferiva all’iniziativa, lanciata dai giovani liberali, che proponeva il prolungamento dell’età lavorativa, fino a 67 anni, per adeguare l’AVS all’anagrafe: si vive più a lungo e quindi si deve rimanere attivi più a lungo. Una conseguenza logica respinta, però, a furor di popolo.
I nostri concittadini hanno fatto un’altra scelta. Il loro tempo libero sarà sempre più dedicato alle tante sollecitanti offerte di un’industria ad hoc, che funziona grazie, ovviamente, alle prestazioni di allenatori, maestri di sport, insegnanti di lingue, di musica, di hobbies d’ogni tipo. Si assiste, insomma, a una sorta di paradosso. Il divertimento degli uni implica, inevitabilmente, il lavoro degli altri.