Il nuovo, come sempre, disorienta. È, adesso, la volta dei «sottoccupati», che rappresentano una recente categoria di lavoratori che cresce, a gran ritmo, anche da noi, suscitando giudizi imbarazzanti. Sono le vittime di tempi difficili o i protagonisti di scelte, rese possibili da questi stessi tempi, sono profittatori, sospettabili di pigrizia, o anticipatori di altri, e sollecitanti, stili di vita? Secondo i dati dell’Ufficio di statistica, nel giro di un decennio, in Ticino, i sottoccupati sono raddoppiati, passando da 8’400, nel 2004, a 17’400, nel 2015, cioè un lavoratore su dieci.
Si parla, quindi, di fenomeno: da mettere in conto alla crisi, spauracchio, che, nel Cantone, alimenta timori ingigantiti dalle speculazioni politiche. Sia chiaro, in questo caso, i frontalieri, gran tormentone locale, non c’entrano. I sottoccupati sono, in maggioranza, cittadini svizzeri o residenti, che, spesso, hanno alle spalle una buona formazione professionale e culturale, magari la laurea. E, com’era prevedibile, a infoltire la categoria sono soprattutto le donne. Particolare, quest’ultimo, che attribuisce alla sottoccupazione una ben altra fisionomia: non più quella di un ripiego, in mancanza di meglio, bensì di una conquista meritata, di cui a ragione approfittare. Tanto che la denominazione stessa è cambiata: non si parla più di sottoccupazione come ripiego, ma di part-time come scelta volontaria.
Il discorso, a questo punto, si allarga e, dall’ambito economico, aziendale, sindacale, si sposta su quello umano, in senso lato, con implicazioni d’ordine morale e psicologico, per collocarsi, infine, su quello storico.
Il fatto che, oggi, coppie, in cui entrambi i partner svolgono un’attività professionale soddisfacente e ben retribuita, optino per il part-time, accettando le limitazioni che comporta, delinea una svolta, per certi versi rivoluzionaria, nel costume contemporaneo. Se può sembrare una moda di tipo alternativo, un po’ snob, in realtà, supera le barriere dei ceti e degli ambienti, sollecita tutti attraverso il contagio tipico della società di massa.
Riassumendo, il lavoro ha perso la centralità che aveva persino creato una particolare tipologia umana. Che fine ha fatto lo «Yuppie» (young, urban, professional)? S’impose, agli inizi degli anni 80. Da Wall Street e dalla City londinese, approdò sulle rive del Ceresio, trovando imitatori nella Lugano, terza piazza finanziaria elvetica, che si popolò di improvvisati finanzieri, broker o affini: non sempre di successo. Anzi, si parlò di «Work alcoholism», la dipendenza patologica dal lavoro, che provocò suicidi, nel mondo finanziario anglosassone.
È una stagione esaurita, priva ormai dei suoi riferimenti ideologici – carrierismo di marca capitalista, da un lato, e stakanovismo sovietico, dall’altro – alla quale ne sta subentrando un’altra, di cui il part-time è un’anticipazione promettente. Grazie alla flessibilità aziendale, nell’ambito pubblico e privato, aumenta la schiera dei lavoratori al 70, 50, 30 per cento, che diventa maggioritaria. Nelle scuole, gli insegnanti a orario pieno sono già una minoranza esigua. Ma anche nelle redazioni, e in generale negli uffici, nei negozi, nei bar prevale la scelta di un’attività ridotta, a cui, ovviamente, corrisponde un salario decurtato. Qualcosa che, un tempo, significava una sconfitta, una perdita di prestigio e prospettive: lavori meno, guadagni meno, conti meno, vivi peggio. Oggi, vale il contrario.
Ma qui, a separare mentalità e comportamenti, interviene il gap generazionale. Per effetto dell’età, c’è chi stenta a dare al tempo libero lo stesso valore che spetta al tempo di lavoro, accettando, senza eccepire, lo sdoganamento dell’ozio, momento creativo. Superando queste perplessità senili, c’è da augurarsi che del part-time si sappia fare il miglior uso, in una quotidianità liberata dalla fretta e dallo strafare e consegnata ai piaceri dei weekend e delle ferie prolungate. Sempre che non ci si debba trovare alle prese con un nuovo stress: quello da tempo libero, provocato dalle attività destinate a riempire il vuoto lasciato dal lavoro. Si leggono, infatti, programmi da capogiro. Insomma, sfacchinate, sia pure volontarie. E viene il sospetto che faticare, in una forma o nell’altra, appartenga alla condizione umana.