L’assalto al Campidoglio non è più un’aberrazione

/ 09.08.2021
di Paola Peduzzi

Sono passati sette mesi dall’attacco al Campidoglio americano, il 6 gennaio del terrore, in cui una folla di rivoltosi armati è entrata nel palazzo con l’obiettivo di punire l’allora vicepresidente Mike Pence, colpevole di aver validato il voto elettorale del novembre del 2020. In questi sette mesi i repubblicani che hanno cercato di salvaguardare le istituzioni, il passaggio dei poteri, la transizione democratica da un presidente all’altro (attività solitamente noiosa ancorché fondamentale) sono stati puniti, espulsi, accusati, emarginati. Sette mesi dopo l’assalto – l’ultima volta che il Campidoglio è stato violato risale all’inizio dell’Ottocento, furono gli inglesi a bruciarlo – Donald Trump è ancora l’uomo forte del Partito repubblicano, e se vi pare incredibile è perché lo è.

La storia della commissione d’inchiesta per chiarire i fatti del 6 gennaio e magari superarli (a questo servono queste commissioni anche se raramente centrano l’obiettivo della pacificazione) racconta molto bene questa incredulità. Trump ha subito un impeachment per aver istigato i rivoltosi ma i repubblicani hanno votato contro e poiché si pensava che fosse arrivato il momento di ricucire, dialogare, ritessere una trama democratica, anche i liberal non hanno fatto barricate. Ma certo non pensavano che i fatti del 6 gennaio diventassero materia incandescente e controversa. Pareva che tutti fossero d’accordo che era stato superato un limite, in quel saccheggio ideologico, violento, sprezzante e mortale, invalicabile. Invece è iniziata una campagna di minimizzazione di quell’evento per cui se oggi consideri il 6 gennaio come un momento osceno della storia americana sei uno che esagera. E anzi, gli uomini con le corna, le armi, l’assetto da guerra che andavano a cercare un vicepresidente per punirlo sono diventati le vittime di una colpevolizzazione collettiva: loro difendevano la verità contro la «grande bugia» della vittoria di Joe Biden.

Il capovolgimento è stato evidente nell’aula del Congresso in cui sono iniziati finalmente i lavori della commissione (ci sono state infinite lotte politiche, Nancy Pelosi, speaker democratica della Camera, ha bloccato i membri repubblicani proposti, e i repubblicani si sono offesi a morte e hanno inflitto un’ulteriore umiliazione alla commissione definendo l’inchiesta partisan, quindi inutile e pericolosa). I primi a testimoniare sono stati degli agenti della polizia e delle forze di sicurezza del Congresso. Uno di loro è un veterano dell’Iraq: di assedi ne ha visti molti. I 4 agenti hanno raccontato la violenza dei rivoltosi, gli insulti razzisti, gli insulti in generale, il taser in dotazione rubato e usato contro di loro, e hanno citato una frase che, con qualche variazione, suona così: è Trump che ci manda. Al di là di quel che è stato detto e raccontato finora, basterebbe questo per chiudere l’inchiesta: i rivoltosi si sentivano investiti direttamente da Trump per attaccare il Campidoglio e ne erano orgogliosi.

Invece sta andando tutto al contrario. Gli agenti vengono descritti dai trumpiani e dai loro megafoni come dei piagnucoloni esagerati che non hanno saputo fare bene il loro mestiere. I trumpiani vogliono che sia reso pubblico il nome dell’agente che ha ucciso la loro «martire» dentro al Congresso, vogliono che ci sia un processo come quello degli assassini di George Floyd, l’afroamericano soffocato dal ginocchio di un poliziotto in diretta sui telefonini, come a dire: se muoiono i nostri voi ve ne fregate. Donald Trump stesso, che pure aveva trovato parole (restie) di condanna il 6 gennaio, ora ha ripreso a giustificare i «patrioti» del 6 gennaio, ingiustamente trattati come rivoltosi quando invece difendevano il normale svolgimento delle elezioni contro le ruberie bideniane. A nulla servono i libri che continuano a essere pubblicati e che ricostruiscono quel che è accaduto alla Casa bianca dopo le elezioni di novembre. Non serve ripetere che Trump è andato dai suoi con una strategia, «voi dite che ho vinto, al resto ci penso io». Perché nella coscienza trumpiana che a questo punto pensavamo sarebbe stata minoritaria e superata c’è davvero una ingiustizia da riparare, con ogni metodo.

I trumpiani ricordano spesso che ci sono stati altri attacchi al Congresso, in particolare quello dei terroristi portoricani che negli anni Cinquanta ferirono cinque deputati o quello dei comunisti che piazzarono una bomba al Senato negli anni Ottanta per protestare contro le guerre. Ma oltre a essere stato un assalto che ha provocato molti più danni e dei morti, il 6 gennaio differisce dagli altri episodi perché ha avuto origine e ispirazione dallo stesso presidente. E tanto ha fatto e tanto ha detto, questo presidente ormai ex ma ancora presentissimo, che il 6 gennaio per molti non appare più come un’aberrazione.