Casey Newton scriveva di tecnologia per «The Verge». Nella Silicon Valley era considerato una sorta di istituzione, apprezzato soprattutto per come nei suoi testi sapeva unire analisi e attualità. Un punto di riferimento per chi voleva capire meglio meccanismi, novità e tendenze dell’industria tecnologica. Un bel giorno, più o meno l’anno scorso di questi tempi, ha appeso tutto al chiodo per lanciare la sua newsletter Platformer su Substack. Spiegando le sue motivazioni, in un’intervista a NPR diceva che a spingerlo era l’idea di libertà e di indipendenza. Substack gli offre una piattaforma e gli strumenti per personalizzare la sua mail, gli paga il sussidio per l’assistenza sanitaria e gli offre assistenza legale.
Non è solo, in questa scelta lo hanno preceduto altri colleghi autorevoli provenienti da testate tipo «Rolling Stone», «The New Republic», «New York Magazine», «BuzzFeed» e «Vox». A spingerli, secondo il cofondatore di Substack Chris Best, sarebbe la voglia di cambiare, la voglia di uscire dal circuito stressante dei social media, da quella pressione continua di postare articoli e farli diventare virali. Sulla piattaforma di newsletter scrittori e giornalisti gestiscono in piena libertà i loro contenuti e le liste dei loro abbonati. In cambio la piattaforma prende il 10% dei ricavi degli abbonamenti. Stripe, l’azienda statunitense di pagamenti online, prende un ulteriore 3% ma tutto il resto va direttamente all’autore. «Craigslist ha ucciso le inserzioni. Facebook e Google si sono prese l’industria pubblicitaria. Viviamo in un mondo in cui i social media si sono presi tutta la nostra attenzione. E siamo intrappolati in questa modalità per cui ognuno di noi è a caccia di partecipazione» ha detto Chris Best a NPR.
Substack, dunque, si propone come antidoto alla cacofonia dell’informazione da social e non attira soltanto giornalisti affermati ma anche freelance come la newyorchese Helena Fitzgerald autrice della newsletter Griefbacon, che in tedesco trova il suo corrispettivo nella bella parola Kummerspeck e in italiano nella più triste espressione «Pancetta da dispiacere». In ogni caso Helena ha fatto della sua Newsletter la sua principale entrata mensile.
C’è chi vede in Substack la tempesta perfetta perché accoglie tutti gli scontenti, stanchi dello strapotere degli algoritmi che non hanno più voglia di passare ore davanti agli schermi come durante la pandemia. E accoglie anche tutti quei giornalisti stanchi di lavorare in un’industria dei media tartassata dalla crisi economica. Secondo uno studio, negli Stati Uniti nel 2020 sono stati tagliati trentamila posti di lavoro. Su Substack nello stesso anno tra marzo e giugno gli autori sono raddoppiati e continuano a crescere. La piattaforma conta 500’000 abbonati e i suoi autori di maggior successo riescono a portarsi a casa guadagni a sette cifre. Certo, se pensiamo che gli abbonati al «New York Times» sono 7,5 milioni la strada per fare concorrenza ai media è ancora lunga.
Secondo Meredith Broussard, professoressa di giornalismo alla New York University, il modello di Substack funziona molto bene solo per chi ha prestigio e ha già un seguito. Intanto, un anno, dopo Casey Newton ha più che raddoppiato il suo seguito passando da 24’000 abbonati a 50’000. A cosa è dovuto l’alto gradimento nei confronti della sua Newsletter? Al buon giornalismo, agli articoli che vanno al cuore delle questioni e fanno rivelazioni inedite. Il giornalista è stato il primo a raccontare i dettagli della mail che ha licenziato la ricercatrice Timnit Gebru, co-leader del team di etica per l’intelligenza artificiale di Mountain View. Licenziata per aver criticato l’approccio dell’azienda nei confronti delle minoranze ed aver evidenziato i potenziali rischi dei suoi sistemi di intelligenza artificiale. Dettagli che sono poi stati ripresi dai maggiori media mainstream. Non solo, di recente Casey Newton per la sua Newsletter ha intervistato dal vivo in video il CEO di Facebook Mark Zuckerberg in persona per conoscere i piani dell’azienda in fatto di espansione nel settore dei prodotti audio. Un’intervista che in altri tempi sarebbe andata su un quotidiano come il «New York Times» o il «Guardian».