Penserete, e avete ragione, cari lettori, che il titolo non è particolarmente originale, tutt’altro, è piuttosto ripetitivo visto che oggi, di arti, mi pare ne stiamo perdendo parecchie. L’arte dell’attesa, per dirne una, della quale abbiamo parlato tempo fa con Andrea Köhler. Per questo non ho pensato a un’alternativa, volevo sottolineare con maggiore enfasi un altro pezzo importante che se ne va.
La riflessione sulla perdita della capacità di ascoltare, in verità, non mi è venuta pensando a Plutarco o a Erich Fromm, a loro arrivo in un secondo momento, ma riflettendo su alcune delle esperienze di vita personale. Sarà un caso, sarà una iettatura, fatto sta che di questi tempi, sempre più spesso mi ritrovo seduta ad un tavolo, nel migliore dei casi davanti ad un latte macchiato, ad ascoltare persone che sembrano dei fiumi in piena, tutte impegnate a raccontare i loro ultimi successi, programmi, viaggi... E la mia più grande disdetta è che ascolto tutto, ogni parola, mentre in segreto sogno di darmi alla fuga appena ne ho l’occasione. Scampata da un incontro del genere, mi riprometto di non ricascarci ma puntualmente il copione si ripete. In tanti ambiti, sia professionali sia privati, l’ascolto è rimasto una prerogativa di pochi.
Personalmente mi è sempre piaciuto ascoltare le storie degli altri, sempre che non siano a puntate e di tre ore ciascuna, l’ascolto non solo mi mette in comunicazione, in sintonia con la persona che ho di fronte ma diventa anche una fonte di ispirazione, una finestra che si affaccia su pensieri e ragioni differenti. Ascoltare per me significa aprirsi, essere disposti ad accogliere e al tempo stesso a rielaborare e trasformare, a fare nostre le cose dette impregnandole del nostro vissuto, del nostro pensare e sentire.
Mi è venuto in mente Erling Kagge e la sua ricerca del silenzio, lontano dalle distrazioni e dai costanti rumori della nostra società, per arrivare a conoscere meglio se stesso e dare un senso più profondo e autentico alla sua esistenza. Ma ho anche pensato al tedesco Bernhard Pörksen, studioso dei media, secondo il quale in tempi di chiasso permanente l’ascolto autentico è diventato un evento raro e spirituale «il luogo per eccellenza della nostalgia». E non vi è nulla di più gratificante dell’essere ascoltati perché implica una completa accettazione da parte dell’altro, al quale permettiamo di avvicinarsi in tutta la sua estraneità e la sua diversità. Un ascolto di questo tipo, diversamente da quello del parlare, è un atto di libertà e nel suo significato più profondo diventa un dono. Peccato, come dice il prof. di filosofia all’Università di Basilea, Gunnar Hindrichs, che viviamo nell’età dell’invidia e dell’egoismo, in cui siamo divisi su tutto, uniti solo dalla paura e dal timore degli altri e sempre incollati agli schermi dei nostri telefonini e computer.
Eppure Erich Fromm, nel suo seminario svizzero del 1973, tra quei presupposti necessari per una cultura e una società che mirano al benessere umano, annoverò l’ascolto. Mentre risuona più che mai attuale il discorso di duemila anni fa di Plutarco, rivolto ad un giovane interessato alla filosofia «stipulata una tregua tra voglia di ascoltare e tentazioni esibizionistiche, dobbiamo disporci all’ascolto con animo disponibile e pacato, come fossimo invitati a un banchetto sacro o alle cerimonie preliminari di un sacrificio», ricordando quali sono i doveri di chi ascolta: «è chiamato a cooperare con chi parla. Quando si gioca a palla le mosse di chi riceve devono essere in sintonia con quelle di chi lancia: così in un discorso c’è sintonia tra chi parla e chi ascolta se entrambi sono attenti ai loro doveri». Senza dimenticare la necessità di uno spirito critico: «bisogna essere generosi nell’elogiare chi parla ma cauti nel prestare fede alle sue parole; si deve essere spettatori bendisposti ma critici attenti e severi dell’utilità e veridicità di ciò che dice». Quali parole più pertinenti nell’era di fake news e post-verità? Ma, consigli a parte, pensandoci, voi cosa siete: buoni parlatori o ascoltatori?