L'arte dell'insulto

/ 02.11.2020
di Aldo Grasso

L’insulto, secondo la definizione fornita dal dizionario Treccani, è una «grave offesa ai sentimenti e alla dignità, all’onore di una persona (per esteso, anche a istituzioni, a cose astratte), arrecata con parole ingiuriose», è una forma di maleducazione, è un segno dei tempi. Tuttavia, dobbiamo fare un grande sforzo: sottrarre l’insulto agli insultatori di professione.

L’insulto ci pare ancora più brutto e volgare perché ormai i talk show televisivi ne fanno un uso costante ma improprio, cioè sostituisco l’insulto al ragionamento. Come ricordava tempo fa Claudio Magris, «chi insulta l’avversario si delegittima; è come fosse politicamente interdetto e si includesse in quelle categorie di soggetti che secondo il vecchio codice cavalleresco non avevano i requisiti per poter essere sfidati a duello. Quegli improperi, pertanto, vanno considerati nulli, fuori gioco. È inutile e forse pure ingiusto prendersela con l’uno o con l’altra turpiloquente, perché ognuno fa quello che può, a seconda dei doni che ha o non ha avuto dal Dna, della famiglia in cui ha avuto la fortuna o la sfortuna di crescere, delle possibilità che ha o non ha avuto di sviluppare liberamente e con signorilità la propria persona o della malasorte che lo ha dotato di un animo gretto e servile. Chi nello scontro politico dice un’oscenità probabilmente non sa dire altro».

L’insulto ci pare così pericoloso perché su internet si è formata una schiera di specialisti del cyberbullismo, dei troll, dei persecutori, dei militanti della violenza verbale: «Ti insulto non per quello che scrivi, ma perché la tua apparente felicità mi offende. Mi fa sentire ancora più infelice di quello che sono».

Tuttavia, fin dall’antichità, l’insulto può essere considerato anche come un vero e proprio genere letterario su quale si sono esercitati i più grandi autori, come Aristofane. La commedia aristofanea è segnatamente contraddistinta dall’insistita presenza della corporeità (del sesso e del ventre), elemento estraneo alla nostra cultura se non come villania gratuita. Il genere comico appare, infatti, come la sede privilegiata per l’abolizione delle – pur presenti – norme di decoro e per la realizzazione di ogni licenza fino alla volgarità, retaggio di antichi culti agrari.

L’uomo è anche un animale astioso, lo sappiamo, e spesso ogni opinione che formula sui suoi simili è solo una forma di denigrazione. Nella collera ci si sente vivere; siccome purtroppo non dura a lungo, bisogna rassegnarsi ai suoi sottoprodotti, che vanno dalla maldicenza alla calunnia, dalla voluttà di screditare al votarsi al culto della mediocrità.

Eppure, sull’insulto, Arthur Schopenhauer ha scritto un delizioso libretto, che si chiama L’arte di insultare, dove il filosofo spiega come il saper lanciare all’indirizzo altrui l’ingiuria, l’invettiva o l’improperio adatti, scientificamente studiati, implichi una vera e propria arte: «Quando ci si accorge che l’avversario è superiore e si finirà per avere torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, grossolani, cioè si passi dall’oggetto della contesa (dato che lì si ha partita persa) al contendente e si attacchi in qualche modo alla sua persona. Questa regola è molto popolare, poiché chiunque è in grado di metterla in pratica, e quindi viene impiegata spesso».

Come ci hanno spesso ricordato Fruttero & Lucentini, nel Circolo Pickwick di Charles Dickens è custodito un prezioso espediente letterario. Finale del primo capitolo: c’è una scena memorabile, una grande lezione di arte dell’insulto. Mr. Pickwick e Mr. Blottom stanno furiosamente litigando nella sede del circolo e nella foga trascendono, si insultano. Alla richiesta di chiarimenti, Mr. Blottom «si sentiva tenuto a dichiarare che nutriva, personalmente, il rispetto e la stima più alti per l’onorevole signore; lo aveva considerato un ciarlatano da un punto di vista puramente pickwickiano». Anche Mr. Pickwick «si sentiva pienamente soddisfatto dalla spiegazione precisa, sincera ed esauriente del suo onorevole amico. E teneva a chiarire immediatamente che anche le sue osservazioni precedenti dovevano essere interpretate secondo una logica puramente pickwickiana (“he had used the word in its pickwickian sense”)».

Presso Einaudi, è appena uscito un interessante libro di Filippo Domaneschi, Insultare gli altri (v. pag. 45 ndr), che tratta questo lato oscuro del linguaggio «un’arte marziale che educa a contenere e a ritualizzare l’aggressività». Il dispositivo comunicativo dell’insulto è smontato e analizzato. La tesi di Domaneschi è che «se ad ogni occasione l’impulso al conflitto, la brama di ledere chi consideriamo ostile, si traducesse in violenza fisica e percosse, non vi è dubbio che avremmo ben poche possibilità di sopravvivere a lungo nel mondo là fuori. (...) Offese, improperi, denigrazioni e ingiurie sono armi proprie di ogni lingua, per mezzo delle quali gli esseri dotati di linguaggio si scontrano, ferendosi violentemente a vicenda senza però versare una sola goccia di sangue». L’insulto, dunque ci preserva dallo scontro fisico.

Ma quanto avremmo oggi bisogno di un C.E. Gadda, l’unico genio in grado di narrare l’universo dell’insulto, di ritrarre i visi dei o delle turpiloquenti che spesso, nella smorfia dell’improperio, rischiano di rivalutare le vecchie teorie di Lombroso sulla fisiognomica.