L’antifascismo: la scelta giusta

/ 10.04.2023
di Aldo Cazzullo

Via Rasella è una delle strade più strette del centro di Roma. La parte finale è in ripida salita. Luogo perfetto per un’imboscata. È l’una di pomeriggio del 23 marzo 1944 quando Rosario Bentivegna, partigiano comunista, si avvia verso via Rasella, travestito da spazzino. Il carrettino, carico di tritolo, è pesante. Bentivegna suda per spingerlo nelle salite del centro della città dei sette colli, e ancora di più per trattenerlo nelle discese: il carretto non ha freni. E poi c’è la tensione. Per essere fucilati, basta che ti trovino addosso la copia di un foglio clandestino. Figuriamoci 18 chili di tritolo. Bentivegna sale fino a Piazza del Quirinale. Qui incrocia due spazzini veri. I due lo fermano e gli chiedono chi è, che ci fa nella loro zona. Bentivegna risponde che sta facendo un carico di cemento. Gli spazzini si mettono a ridere. Credono di capire che quel collega stia lì fuori zona per fare la borsa nera. Scherzando gli dicono: «Ma che cemento, facce vede’ i presciutti!». E fanno per aprire il cassonetto. Bentivegna però ha la prontezza di spirito di mandare i due colleghi a quel paese e proseguire per la sua strada. I due spazzini se ne vanno via ridendo convinti di aver pizzicato un loro collega non troppo ligio alle regole.

Ormai sono le 14 e i tedeschi del battaglione Bozen, vittime designate dell’attacco partigiano, dovrebbero arrivare. Ma passano 10 minuti, ne passano 20, ne passano 30, e i tedeschi non arrivano. La tensione cresce. Bentivegna inizia a fumare nervosamente. Ma deve stare attento. Il tabacco della sua pipa è quello che gli serve per accendere la miccia. Sono ormai passate le tre. È più di un’ora che il partigiano è fermo. Per non destare troppi sospetti impugna la ramazza e si mette a spazzare la strada. Ma si rende conto che i suoi gesti, vuoi per la tensione, vuoi perché quel lavoro lui non l’ha mai fatto, sono talmente goffi e impacciati che rischiano di farlo scoprire. E allora si rimette lì, fermo dietro il carrettino in attesa.

Stanno per scoccare le quattro quando il segnale arriva: Bentivegna vede un compagno, Franco Calamandrei, che lo guarda da in fondo alla via, e si leva il cappello. Qualche istante dopo il battaglione Bozen svolta da via del Tritone e inizia a salire per via Rasella. La miccia ha una durata di 50 secondi, calcolati al centesimo per fare esplodere la bomba quando la testa del plotone arriverà all’altezza del civico 134. Bentivegna lascia la miccia nel carrettino e si affretta verso la salita accanto al plotone che risale. L’impatto è devastante. La detonazione è resa ancora più deflagrante dall’esplosione delle bombe a mano che i militari tedeschi portano alla cintura. È un’ecatombe. I morti sono 33. Ogni tedesco, 10 italiani: 335 italiani, 5 in più per zelo o per errore, saranno trucidati per rappresaglia il giorno dopo nelle cave sulla via Ardeatine: le Fosse Ardeatine. È utile ricordare tutto questo per capire la polemica che ancora attraversa la politica italiana. È falso quel che ha detto di recente Ignazio La Russa, presidente del Senato, seconda carica dello Stato: le vittime dell’attacco non erano «una banda musicale di semi-pensionati»; erano poliziotti che appartenevano alle truppe di occupazione naziste. È falso che gli attentatori non siano stati coraggiosi, che avrebbero potuto salvare la vita dei fucilati se si fossero presentati ai tedeschi: «L’ordine (della rappresaglia) è già stato eseguito», informò l’agenzia del regime fascista, la Stefani, in un comunicato pubblicato su «Il Messaggero».

Si può certo discutere se l’attacco di via Rasella sia stato o meno opportuno. Una rappresaglia era inevitabile; il calcolo secondo cui sarebbe servita a inasprire la popolazione locale contro i tedeschi è senz’altro un calcolo cinico; ma si era in guerra, gli americani chiedevano azioni di disturbo nelle retrovie, e quando la notizia arrivò al nord il capo partigiano liberale Edgardo Sogno commentò: «Finalmente anche a Roma si sono svegliati». Comunque la si pensi, resta il fatto che era giusto attaccare i nazisti occupanti. E che nella guerra civile c’era una parte sbagliata, quella che sosteneva i nazisti, e una parte giusta, quella che ai nazisti resistette. Eppure in Italia questa ovvietà non convince una parte vasta dell’opinione pubblica, secondo cui essere antifascisti significa essere comunisti, dimenticando la Resistenza liberale, cattolica, monarchica. Alle Fosse Ardeatine caddero 12 carabinieri, il colonnello dell’esercito Giuseppe Montezemolo, e un sacerdote, don Pietro Pappagallo; e certo non erano comunisti.