Shams al-Din Abu’Abdallah Muhammad ibn’Abdallah ibn Muhammad ibn Ibrahim ibn Muhammad ibn Yusuf Lawati al-Tanji ibn Battuta (l’Altropologo chiede scusa, ma l’anagrafe richiede precisione), vissuto fra il 1304-1368 o ’69, è una delle figure più affascinanti dei secoli d’oro dell’Islam. Allora la dottrina del Profeta – sicura del suo progresso trionfante e libera da complessi di sorta – poteva permettersi dispute teologiche nelle quali i nomi di Platone e Aristotele – i testi dimenticati dei quali, occorre ricordare, venivano trascritti dal greco e interpretati dagli Ibn Sinna (Avicenna) e dagli Ibn Rosh (Averroè) del mondo islamico per poi essere trasmessi all’Occidente cristiano – figuravano autorevolmente nelle librerie dei maggiori interpreti dell’ortodossia coranica. Secoli di grande apertura, di dispute anche aspre condotte da spiriti liberi di chi sa che i sette fondamentali pilastri dell’Islam non saranno comunque minati alle fondamenta. Dall’Africa alla Cina e all’Indonesia il libro faceva più convertiti della spada: e parlo qui non solo del Libro per eccellenza, ma anche dei libri contabili di quella classe di mercanti globali che poteva contare sulla forza persuasiva di piastre e piastroni che da Venezia alle Molucche liquidavano attriti, disaccordi e contenziosi in contante sonante piuttosto che veder scorrere sangue.
Ibn Battuta – lo chiameremo (con rispetto) secondo il suo nomignolo che significa «Anatroccolo» – era nato a Tangeri il 24 febbraio 1304 da una famiglia di origine Berbera (come la madre di Sant’Agostino) che praticava la professione di giudici secondo la giurisprudenza coranica. Educato anch’egli nella professione di famiglia, sedere in giudizio a dirimere questioni di lana caprina non era per lui. Nel giugno del 1325, all’età di 21 anni, decise di compire l’haji alla Mecca e salutò la madre in lacrime il 13. Nella primavera del 1326 arrivò ad Alessandria, essendosi lasciato alle spalle il primo di una serie di «matrimoni da viaggio» contratto a Sfax. A 3500 km da casa, il vecchio saggio Sheikh Burhanuddin ne divinò la natura di viaggiatore vocato alla conoscenza di luoghi e popoli lontani «Vai in Cina da mio fratello Fariduddin, da mio fratello Rukonuddin in Sindh (Pakistan) e da mio fratello Burhanuddin in India e porta loro i miei saluti – tanti auguri a te e buon viaggio». Cairo, Damasco, Gerusalemme, Medina, Mecca: il prestigioso titolo di Al Haji lo compensava degli slalom fra predoni e ostacoli di ogni sorta. Tempo di andare oltre nel nome di Allah Onnipotente e Misericordioso. Decise di proseguire verso Nordest, attratto da quanto si andava raccontando nei caravanserai sui misteriosi e crudeli Mongoli. Jeddah, Baghdad, Basra, Isfahan per poi virare di nuovo verso Baghdad che descrive ancora sofferente dalle devastazioni dei Mongoli cinquant’anni prima. Era il 1327. Tornato alla Mecca per una seconda visita esausto per una diarrea durata mesi, nel 1328 era di nuovo on the road. Prima a Sana’ (Yemen), poi Aden e l’imbarco verso il Sud: Mogadiscio viene descritta come una città grande e ricchissima, Malindi e Zanzibar come avamposti del commercio di avorio e schiavi con l’interno dell’Africa.
Fra il 1332 e il 1347 vediamo Ibn Battuta incassare l’oracolo alessandrino: Antalya e l’Anatolia verso Azov per poi piegare a Sud-Est. Bukhara, Samarcanda e finalmente il Pakistan. Da qui passò in India. Il sultano mongolo Mohammad Ibn Tughlaq che governò Delhi fra il 1325 e il 1351 lo nominò giudice. Finì che Ibn Battuta non facesse pane con quello che era considerato l’uomo più ricco del mondo islamico e, dopo sei anni, Ibn Battuta si trovò in rotta col Sultano con l’accusa di tradimento. Ora di cambiar aria. Nel 1341 il Nostro partì per la Cina. Pechino, Quanzhu, Malesia, Sumatra… poi Sri Lanka e Damasco ancora: tempo di rientrare a casa. Dopo un detour in Sardegna, così, tanto per…, nel 1349, 25 anni dopo la sua partenza, riapparve a Tangeri dove scoprì che sua madre era morta solo qualche mese prima. Tempo di appendere gli scarponi al chiodo? Nient’affatto.
Fra il 1349 e il 1354 Ibn Battuta compì un viaggio che ha ancor più del leggendario di quanto da lui fino allora percorso. La misteriosa, sfuggente e remotissima Timbuktu fu la meta di un viaggio lungo le rotte carovaniere del Sahara che resta ancor oggi iscritto nell’albo d’oro dei Grandi Viaggi. Si calcola che laddove Marco Polo abbia viaggiato 24’000 km e Zheng He 50’000, Ibn Battuta ne abbia percorsi 117’000. Non male per un Anatroccolo a piedi che – si dice – non fosse poi nemmeno quel capolavoro di bellezza…