Chissà se l’amore della donna che l’ha sposato 16 mesi fa nella prigione di Belmarsh, vicino a Londra, salverà Julian Assange dall’estradizione negli Stati Uniti. Nei giorni scorsi, la sua ex avvocata Stella Moris Assange, ha proseguito il proprio «pellegrinaggio», incontrando tra gli altri Papa Francesco e facendo tappa pure a Ginevra (ma tempo fa era stata anche a Lugano), per chiedere al mondo civile di impedire che il marito venga seppellito a vita in una prigione americana. L’ultima carta in favore del consorte è una richiesta di grazia al presidente statunitense Joe Biden.
Assange, per chi l’avesse dimenticato, è stato il fondatore di WikiLeaks, il sito che tra il 2006 e il 2018 ha pubblicato documenti top secret, mettendo in piazza scandali inauditi e rilevando le malefatte di potentati economici e Paesi vari: Cina, Turchia, Kenia, Paesi arabi, ma soprattuto Stati Uniti. Che infatti da tempo ne chiedono, metaforicamente?, la testa.
Con WikiLeaks abbiamo scoperto, per esempio, un video di 17 minuti, chiamato Collateral Murder, che mostra l’assassinio di dodici civili iracheni a Baghdad in un attacco perpetrato da due elicotteri Apache statunitensi il 12 luglio 2007. Dal 28 novembre 2010 il sito ha pubblicato un’ingente rassegna di documenti riservati (i Cablegate) focalizzati sull’operato del Governo e della diplomazia USA nel mondo. Nel 2018 ha diffuso un testo segreto della Corte internazionale di arbitrato della Camera di commercio internazionale, sul pagamento delle commissioni per un affare di armi da 3,6 miliardi di dollari tra la società statale francese GIAT Industries SA (ora Nexter Systems) e gli Emirati Arabi Uniti (UAE). Eccetera, eccetera.
Assange non è un santo. Il suo metodo per scoperchiare i bidoni maleodoranti dei potenti non è esente da critiche, ad esempio nella scarsa protezione delle fonti, quasi sempre i cosiddetti «whistleblower», «gole profonde», o «spie» – se si preferisce – che mettendo a repentaglio la propria vita violano le regole di discrezione alle quali sarebbero tenuti. Inoltre, rivelare segreti di stato o d’azienda spesso mette in pericolo persone innocenti. Ma esistono altri modi per venire a capo di certe verità scandalosamente impopolari? L’altra ombra, per Assange, è di essere stato imboccato con notizie vere da sponsor tutt’altro che immacolati per ragioni per nulla nobili (in particolare dalla Russia: e in questo momento quella di Mosca è un’ombra pesantissima su di lui).
Per il resto, dopo i primi spettacolari scoop di WikiLeaks, gli si è rovesciata addosso una valanga di fango. Ed è impossibile capire se le «vecchie» accuse di violenze sessuali che l’avevano costretto a rifugiarsi per sette anni nell’ambasciata ecuadoriana a Londra per evitare di essere estradato in Svezia, fossero vere o costruite ad arte per incastrarlo. In ogni caso, prima ancora che uscisse dall’edificio, la polizia britannica l’ha preso in consegna come un pacco postale e l’ha spedito per 4 anni nel carcere di Belmarsh, da dove ora rischia di essere estradato verso gli States. Qui potrebbe scontare 175 anni di galera per spionaggio e altri assortiti capi d’accusa.
Carismatico, controverso e non simpaticissimo, Assange è probabilmente vittima del successo stratosferico della propria creatura. A condannarlo non è il suo comportamento ambiguo o le magagne nascoste che ha spiattellato alla platea mondiale (senza un’adeguata contestualizzazione molti documenti risultano illeggibili), ma il coraggio indecente di aver più volte sottratto al potere la sua arma più pericolosa: il controllo assoluto della verità dei fatti.