Le relazioni con gli Stati Uniti? Buone, anzi ottime. Con i presidenti americani non ci sono mai stati screzi, giurano i diplomatici e i rappresentanti delle Camere di commercio, soprattutto nel settore degli interscambi economici. Davvero? E la questione degli averi ebraici rimasti su conti dormienti elvetici perorata davanti al Senato dal repubblicano Alfonse D’Amato? E la successiva, lunga vertenza fiscale promossa
dalla giustizia americana contro l’UBS assieme ad un buon numero di altri istituti bancari (violazione delle norme statunitensi)? Non quisquilie, ma contenziosi chiusi con l’esborso di parecchi milioni di dollari…
Ma, si dirà, tutto ciò è stato archiviato. Oggi le due «Sister Republics», le repubbliche sorelle, hanno ritrovato l’armonia che ha sempre caratterizzato il loro dialogo, una sorellanza sorretta da robusti legami ideologici e da marcate parentele istituzionali: la libertà, l’attaccamento al lavoro, l’ordinamento statuale, il sistema bicamerale, il federalismo.
Storicamente questo comune sentire emerge nettamente già negli anni della «rivoluzione americana» del ’700, allorché le tredici colonie soggette all’Inghilterra decisero di affrancarsi, armi in pugno, dalla madrepatria. A quella rivolta parteciparono anche alcuni immigrati d’origine svizzera. Gli annali registrano le iniziative di un certo Johann Heinrich Müller, alias Henry Miller. Questo Miller, sebbene fosse cresciuto in Germania, era figlio di genitori svizzeri ed aveva appreso il mestiere di stampatore a Basilea. A Filadelfia, dov’era sbarcato dopo una serie di traversie, varò il Pennsylvanischer Staatsbote, un bisettimanale che oggi definiremmo «militante». Il proposito dell’editore fu uno solo fin dapprincipio: magnificare le gesta dei cantoni sovrani svizzeri (per singolare coincidenza anch’essi erano tredici, come le colonie del nuovo mondo), esaltare lo spirito repubblicano ed evidenziare le supposte affinità fra i due popoli. Non erano forse George Washington e Guglielmo Tell due eroi della lotta per la libertà, il primo contro l’impero inglese, il secondo contro i signori della casa d’Austria? Nel processo di emancipazione non si replicava forse una battaglia che i cantoni forestali avevano già combattuto, e vinto, alcuni secoli prima nelle vallate alpine?
Questo sul piano della pubblicistica. Sul piano accademico (o, se vogliamo, ai livelli alti della comunicazione politica), l’influenza elvetica fu ancora più significativa e duratura. Di grande considerazione godette ad esempio il professore ginevrino Jean-Jacques Burlamaqui, autore dei Principes du droit naturel (1747), un trattato che Thomas Jefferson, il padre della dichiarazione d’indipendenza del 1776, lesse e rilesse con fervore. Anche James Madison, un altro grande padre fondatore degli Stati Uniti moderni, tenne in gran conto le lezioni dei dotti ginevrini nello stilare la costituzione di Filadelfia del 1787.
Naturalmente sia Jefferson che Madison non presero alla lettera tutte le raccomandazioni dei giuristi-filosofi della città di Calvino. E tuttavia li studiarono a fondo, anche per individuare nei loro testi e nelle loro proposte di riforma i punti deboli, le incongruenze, i difetti. Madison sottopose l’ordinamento elvetico ad un esame critico minuzioso. Il modello confederale dei tredici cantoni appariva a Madison troppo lasco, troppo sfilacciato, un arcipelago di isole staccate le une dalle altre non coordinate con sufficiente energia da un’autorità centrale. «La Confederazione elvetica – scrisse nelle sue Note sulle Confederazioni antiche e moderne – non forma una repubblica… bensì un insieme di repubbliche alleate. Non esiste uno strumento politico comune che le connetta tra loro».
A loro volta gli artefici della Costituzione federale del 1848 s’ispirarono largamente alla carta costituzionale americana promulgata a Filadelfia sessantuno anni prima. In quell’occasione il filosofo Ignaz Paul Vital Troxler dette alle stampe un libello dal titolo eloquente: La Costituzione degli Stati Uniti d’America come modello per la riforma dello Stato federale. Anche la guerra di secessione (1861-1865) non lasciò indifferente la sempre più nutrita colonia svizzera negli Usa. In parecchi parteciparono come fucilieri ai sanguinosi scontri campali tra nordisti e sudisti. La maggior parte si arruolò nell’esercito dell’Unione comandato dal generale Grant, chi per interesse, chi per spirito d’avventura, chi per senso della giustizia. L’eco della guerra civile fu naturalmente enorme anche nella piccola repubblica alpina, paese non ancora guarito dalle ferite del Sonderbund: «i liberali e i radicali considerarono il Sonderbund come Lincoln e i suoi adepti giudicarono gli stati confederati nel 1861: un movimento secessionista reazionario che bisognava debellare per salvare la nazione». Dio benedica l’America. E la sorellina rossocrociata.
L’amico americano
/ 01.02.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti