Ogni tanto i politici piangono. Lacrime di coccodrillo, come si dice? Devono farsi perdonare qualcosa? Non sempre. Teresa Bellanova, ministra delle politiche agricole alimentari e forestali della Repubblica Italiana, si è commossa illustrando la norma da lei fortemente voluta sulla regolarizzazione dei migranti. Segno di debolezza? Non credo proprio. Il pianto non è solo una prerogativa femminile, come il senso comune vuol farci credere, un segno di fragilità, qualcosa di cui vergognarsi. Hanno pianto anche Silvio Berlusconi, Sandro Pertini e tanti altri.
Nel gennaio 2016 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha pianto in pubblico. Sottolineando l’intreccio di forza e debolezza, la stampa si è interrogata: «Obama ha reso accettabile il fatto di piangere in pubblico?». In realtà la novità è meno importante di ciò che lascia intravedere: un’attenzione collettiva verso le lacrime. Il dato che forse colpisce di più è che tale attenzione nasce da una dimenticanza. Le lacrime un tempo erano frequenti, tanto in pubblico quanto in privato. Nella Roma antica fornivano un ausilio imprescindibile al politico, erano l’arma preferita degli oratori e il mezzo con cui distinguersi dal volgo. Contribuivano anche a veicolare i presagi riguardanti la città. Le lacrime, insomma, scorrevano abbondanti tra i romani.
Sara Rey ha pubblicato presso l’editore Einaudi un libro che si intitola Le lacrime di Roma: la tesi di fondo è che nell’antica Roma il pianto era alquanto diffuso e accompagnava gli avvenimenti della vita pubblica e privata. Si trattava di esercitare un potere politico e simbolico: per aumentare la loro autorità, senatori, imperatori e brillanti condottieri non esitavano a versare lacrime. Esse venivano usate nelle più svariate situazioni: per esprimere la sofferenza del lutto, la volontà di espiazione quando oscuri presagi appaiono minacciosi, la paura di un’esclusione sociale per cui si invoca la tradizione della propria famiglia; per manifestare la propria grandezza d’animo davanti agli sconfitti.
Nel recensire il libro su «Il Foglio», Claudia Gualdana scrive: «Il pianto e l’arte oratoria, che a Roma ha vissuto il massimo splendore, vanno di pari passo. Il politico è oratore per definizione: deve motivare e commuovere le masse e il pianto fa parte della strategia». Il buon uso delle lacrime in politica è il capitolo in cui l’autrice colleziona pianti teatrali, in cui i grandi del mondo antico somigliano ad attori o a registi di ottime rappresentazioni. «A Roma il più eloquente è anche il più potente», spiega l’autrice. Si dice che Nerone abbia deciso di uccidere Britannico dopo averlo sentito declamare i versi di Ennio, perché era troppo bravo: un rivale da eliminare. Leggenda o meno che sia, dà la misura di quanto importante fosse, anche in tempi di potere assoluto, il favore del popolo».
Anche nel secolo della Ragione si piangeva, anche allora da una lacrima sul viso si capivano tante cose. Marco Menin ha scritto un libro molto interessante, La filosofia delle lacrime. Il pianto nella cultura francese da Cartesio a Sade (il Mulino), che ha per tema l’emozione e la sua manifestazione più evidente. È vero che non c’è epoca in cui non si siano versate lacrime, ma nei pensatori che Menin prende in esame la lacrima, sospesa tra l’immediatezza naturale e l’artificio culturale, è un ottimo banco di prova per indagare le relazioni enigmatiche che legano la dimensione fisiologica e quella psicologica, il «fisico» e il «morale». Non potendo limitarsi alla ragione stessa, l’uomo ha cominciato a guardare il mondo attraverso il velo di una lacrima. Non è più necessario dover vivere e comportarsi «siccis oculis», con gli occhi secchi.
In uno dei racconti più suggestivi della Bibbia si piange: «Allora Giuseppe disse ai fratelli: “Avvicinatevi a me!”. Si avvicinarono e disse loro: “Io sono Giuseppe, vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto”… Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse» (Genesi 45, 4-15).
Gioia, dolore, delusione, sconfitta, successo: gli stati d’animo legati al pianto sono pressoché infiniti, e innumerevoli sono le modalità, i rituali, le prescrizioni che ogni epoca e ogni cultura hanno adottato per regolarne l’uso. Le lacrime parlano, ma non sono parola, nemmeno gesto, affiorano dagli occhi e, significativamente, scorrono per dirci qualcosa: le arti figurative, la poesia, il teatro, la letteratura, il cinema sembrano averlo saputo da sempre, poiché ne hanno fissato da tempo immemorabile i canoni espressivi.
Nelle ultime sequenze di C’era una volta in America si piange. È una delle pagine più ermetiche e toccanti del film: non ci sono dialoghi, l’unico rumore che squarcia il silenzio notturno è quello di un camion della spazzatura. E il pianto, indotto, non fa che aumentare il mistero di quel finale. Senza le lacrime dello spettatore tutto sarebbe più scontato.
Come scrive Emil Cioran, «al giudizio universale verranno pesate soltanto le lacrime».
Lacrime e politica
/ 07.09.2020
di Aldo Grasso
di Aldo Grasso