La viverna è una bestia fantastica raffigurata come serpentone alato con un occhio solo in forma di carbonchio. Un rubino di straordinaria purezza che illumina la sua rotta sopra i boschi, proiettando un fascio di luce così forte da avvistarla a grande distanza. Quando vola da un monte all’altro sputa lingue di fuoco che fanno brillare le sue scaglie come un vestito di paillettes, rischiarando le sue ali gigantesche. In primavera è solita fare il bagno alla sorgente dei fiumi, prima però appoggia il carbonchio sulla riva. «Essendo questo diamante di un valore inestimabile più di un uomo coraggioso ha tentato di uccidere il dragone» scrive Alfred Cérésole in Légendes des Alpes vaudoises (1885).
Ed è questo un po’ il meccanismo narrativo ricorrente che accomuna le molte leggende con protagonista la viverna. Riducendo il campo d’azione alla Svizzera, tante sono ambientate nel Giura, in specialmodo nell’Ajoie, dove è tuttora lo stemma. Mentre nel basso Vallese c’è Vouvry, paesino verso la foce del Rodano il cui nome diversi etimologisti riconducono alla viverna – vouivre in francese – uccisa in una leggenda da un giovanotto del posto. Come a Saint-Sulpice, su quasi in cima alla Val de Travers, nel canton Neuchâtel. Villaggio di seicento anime a nove chilometri dalla Francia adagiato in fondo alle pinete e ai fianchi dell’Areuse che ora scorre sonnacchiosa. La seguo risalendo il suo riposante corso che spesso compie curve incantevoli ed è addomesticata, un paio di volte, da scenografiche chiuse. Filari di pioppi completano il quadro distensivo.
Saint-Sulpice, oltre a contenere nel nome quello dell’eroe della leggenda locale, conserva tre microtoponimi derivati dall’enorme viperastra volante chiamata da queste parti Vuivra: Roche à la Vuivra, Fontaine à la Vuivra, Combe à la Vuivra. Quest’ultimo è un vallone nel fitto dei boschi dove sono ambientate diverse versioni della leggenda. Ma Jacques-André Steudler (1932-2016), maestro di scuola e istrionica memoria storica della regione, incontrato al Cafè de la Poste di Fleurier due anni fa, mi ha rivelato il luogo esatto della storia: la sorgente dell’Areuse. E così, dopo una camminata di quaranta minuti partendo da Fleurier – villaggio orologiero a pianta ortogonale che sembra La Chaux-de-Fonds in miniatura dove ho preso una camera spartana proprio sopra il Café de la Poste – eccola indicata: 5 minuti.
Entro nel bosco, lungo l’Areuse edifici mezzo abbandonati un tempo mulini o segherie. Il sottobosco è costellato dalle Primule veris, ogni tanto spunta anche il viola-porpora dei calici imbutiformi della Pulmonaria officinalis. Un forte getto d’acqua esce da una deludente diga che mi lascio alle spalle e in compenso si apre un angolo di pace come pochi. Eccoci, l’acqua smeraldina forma una specie di laghetto triangolare che nasce invisibile ai piedi di una parete calcarea vertiginosa, tutto intorno pinete. È questo il teatro della lotta tra la viverna e un giovane fabbro di Saint-Sulpice di nome Sulpice Reymond, la cui traccia più remota si trova in un manoscritto del 1687 conservato nella bilioteca cantonale di Neuchâtel.
La sorgente dell’Areuse (790 m) è di tipo valchiusano, vale a dire che sgorga impercettibile da misteriose cavità sotterranee. Mi siedo su una delle due panchine di legno. «Couaaac» rimbomba laggiù. Una banda di scoiattoli ha spezzato un ramo e corre indemoniata su è giù un pomeriggio di metà aprile. È lì, in cima a quella roccia che Sulpice Reymond nel 1273 appende a una lunga catena la gabbia in ferro costruita per affrontare la viverna. Viveva da tre anni nella grotta in basso e seminava terrore in tutta la valle tanto che nessuno osava più passare di qui. A quei tempi non c’era la strada di oggi né i binari, perciò il collegamento tra Neuchâtel e Pontarlier era bloccato qui dove ancora sale il sentiero per Les Bayards. Inoltre le mucche erano talmente impaurite da non fare più latte e la vegetazione si era seccata per via del suo alito malefico. Addormentata dopo un bagno nell’Areuse, la colpisce con una raffica di frecce. Uscito dal suo marchingegno per sgozzarla, la viverna piscia sangue emettendo un grido mostruoso che echeggia fino giù a Couvet. Con la coda cerca di strangolare il giovane Reymond che però alla fine riesce a ucciderla. Accolto in paese come un salvatore, muore qualche giorno dopo per le ferite alla gola provocate dalle scaglie e per il suo sangue velenoso.
Mi avvicino alla sorgente saltando sui sassi biancastri, spirali risorgive venano l’acqua da sotto. Pare che sui fondali in ghisa di diversi camini delle vecchie case di Saint-Sulpice ci sia, cesellata a bassorilievo, la viverna. Mentre sul limitare di una foresta non lontana, stupisce una sontuosa dimora in stile reggenza costruita nel 1727 sui piani di un architetto parigino. Lì ha abitato i suoi ultimi anni Alexandre Reymond, ricchissimo banchiere emigrato a Parigi e discendente dell’uccisore della viverna. La sua enorme fortuna deriva, dicono, dall’impagabile carbonchio.