La vita in immagini

/ 18.02.2019
di Franco Zambelloni

La nostra epoca viene ormai designata anche come «la civiltà dell’immagine»; definizione inconfutabile, perché certo nessun periodo storico è mai stato così straripante di immagini come il nostro. La storia delle raffigurazioni – artistiche e sacre – attesta un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’immagine: a volte accolte con entusiasmo come esaltazione della bellezza, o di figure di potere e di uomini illustri; a volte, invece, esecrate come forme di culti idolatrici e quindi condannate da tutte le correnti iconoclaste che si sono succedute sul fondamento della Bibbia e del Corano. «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra»: così si legge nell’Esodo biblico.

Poi, però, nella cultura cristiana questo rifiuto delle immagini è venuto meno, e così oggi possiamo ammirare gli splendidi affreschi di tante cattedrali, le decorazioni dei palazzi rinascimentali, i ritratti di pontefici, nobili e sovrani che, soprattutto a partire dal Cinquecento, affidavano ad artisti insigni l’esaltazione della loro magnificenza e il permanere del loro ricordo. Ma quelle immagini erano dei capolavori che richiedevano talento e fatica: Michelangelo ci mise quattro anni ad affrescare la volta della Cappella Sistina; oggi con un apparecchio digitale basta premere un tasto e hai subito un’immagine.

Così, dall’avvento della fotografia in poi le immagini si sono moltiplicate in quantità vertiginosa; poi è venuto il cinema, poi la televisione, i tabelloni pubblicitari; e oggi Internet, gli smartphone, i giornali ci offrono un flusso ininterrotto di immagini che stravolgono i canoni della trasmissione culturale. Potrebbe sembrare solo uno dei tanti cambiamenti che contraddistinguono il nostro tempo incalzato dal progresso tecnologico; ma in realtà credo che il cambiamento, in questo caso, sia più profondo, perché non riguarda soltanto il mondo esterno, affollato di immagini, ma anche l’interiorità dell’uomo. La comunicazione, in passato, era affidata principalmente alla parola; oggi è l’immagine il mezzo a cui si tende ad affidare prevalentemente l’informazione. Si pensi ai messaggi pubblicitari: certo, la chiacchiera di sottofondo spiega le offerte meravigliose che non si possono perdere, ma sono le immagini a suscitare il desiderio: immagini di felicità, di amore, che fanno sognare una vita meravigliosa, affetti intensi e – naturalmente – l’acquisto del prodotto pubblicizzato. Negli SMS e nella posta elettronica le icone di faccine sorridenti, dispiaciute o rabbiose, rimpiazzano una frase scritta che certo sarebbe più impegnativa, ma assai meno anonima e stereotipa.

«In principio era la Parola», dice il testo sacro; ma poi sono venute le immagini e hanno prevalso. In effetti la parola, il linguaggio, agli albori della civiltà sono stati il canale di sviluppo del pensiero, lo strumento che ha consentito la riflessione, oltre che la comunicazione: dalla parola hanno avuto origine pensieri, miti, teorie e sogni. L’immagine, al contrario del linguaggio, è prevalentemente passiva: per lo più si lascia assaporare per qualche istante e poi è subito sostituita da un’altra. Così, a giudizio di alcuni studiosi, l’interiorità riflessiva va indebolendosi a favore dell’esteriorità visibile: non sorprende, dunque, che numerose ricerche attestino il progressivo declino delle competenze linguistiche un po’ in tutto l’Occidente.

In un libro appena apparso, La morte si fa social, il filosofo Davide Sisto avanza poi considerazioni non infondate sul fatto che, vivendo sempre più immersi nel mondo virtuale di Facebook, Instagram, WhatsApp, non solo la vita si va trasformando, ma anche la morte: in un certo senso, la morte non esiste più, ma al tempo stesso siamo circondati dai morti, le cui immagini e i cui messaggi irrompono sugli schermi dei cellulari e sui monitor del computer. «Moriamo, – scrive Sisto – ma continuiamo ad esistere nella presenza ineliminabile della nostra vita passata online». Non è una grande consolazione, ma è comunque la forma di sopravvivenza che in passato era possibile solo per i nobili che si facevano ritrarre da grandi artisti, o per i letterati che affidavano alle loro opere quella speranza di immortalità che il poeta Orazio celebrava cantando: «Non tutto morirò». C’è però una bella differenza tra il sopravvivere nell’ammirazione di molti lettori e l’apparire post mortem in un blog a qualche curioso di passaggio in Rete.