La notizia è recente: a Ginevra una donna di 86 anni si è rivolta a un medico di Exit, l’organizzazione di assistenza al suicidio, perché l’aiutasse a morire. La donna non era malata: era disperata. Il marito, con il quale era sposata da più di sessant’anni, stava per morire e lei ha chiesto di poter morire con lui. Il medico le ha fornito il farmaco letale. Ovviamente, esistono pareri divergenti sul gesto del medico di Exit, che si può comunque considerare come un atto di pietà verso una condizione di sofferenza spirituale che avrebbe condannato una donna – già avanti negli anni – a consumare in una disperata solitudine gli avanzi della vita.
L’evoluzione della mentalità nel corso dei secoli ha quasi capovolto gli antichi pregiudizi sul suicidio: nel mondo classico della Grecia di Platone e Aristotele il suicidio veniva considerato un reato contro gli Dèi o contro la comunità. Naturalmente, si trattava di un reato che non poteva più essere punito, se non simbolicamente: così, nell’Atene del V secolo la mano del suicida veniva sepolta lontano dal corpo. Però, stranamente, l’infanticidio – qualora il bambino nascesse gracile o deforme – veniva giustificato da Platone e da Aristotele come una misura di igiene sociale. Contava dunque la comunità, l’individuo non aveva autonomia. Con l’imporsi del cristianesimo fu la Chiesa a dettare le norme: la scomunica dei suicidi fu sancita dal Concilio di Toledo nel 693 e ancora nel 1917 il Codice di diritto canonico vietava loro la sepoltura. Solo la versione del Codice del 1983, successiva al concilio Vaticano II, soppresse le sanzioni precedenti.
L’età moderna ha dunque fatto prevalere il principio che la vita appartiene all’individuo, non alla comunità o a un’istituzione religiosa. Oggi questa pare la soluzione più tollerante e più giusta, la più rispettosa dell’individuo e della sua libertà. È in forza di questo riconoscimento della libertà individuale che il giurista Carl Stooss, considerato il padre del Codice penale svizzero, sostenne che colui che si suicida non merita una punizione, bensì la nostra compassione: la legislazione elvetica, infatti, risulta essere particolarmente liberale non solo nei confronti di chi sceglie il suicidio, ma anche di chi presta aiuto a una persona che voglia suicidarsi.
La compassione, dunque, costituisce il criterio etico atto a guidare il giudizio e il comportamento nei confronti di chi soffre; ma, come sempre, nessun principio etico va assolutizzato. Se l’imperativo morale assolutamente prevalente fosse quello di non fare soffrire e di annullare il dolore, allora non si dovrebbero più mettere al mondo figli: perché, come scriveva il Leopardi, «nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa; e in sul principio stesso / la madre e il genitore / il prende a consolar dell’esser nato». O addirittura – secondo un caustico aforisma del passato – il più grande benefattore dell’umanità sarebbe chi trovasse il modo di procurarne una rapida e definitiva estinzione.
Alleviare la sofferenza fa comunque parte della deontologia medica, e quando il deperimento fisico diventa irreversibile e quel che resta della vita può essere solo una dolorosa agonia si può capire che un medico si presti all’eutanasia: nel 2018 Exit ha accompagnato alla morte, in Svizzera, 905 persone.
Ma il dolore non è solo quello fisico (che oggi è controllabile grazie ai farmaci), ma anche, e forse soprattutto, quello spirituale. Basta pensare al numero dei suicidi giovanili: dati statistici di una ventina d’anni fa individuavano nel suicidio la seconda causa di morte al di sotto dei 21 anni, dopo gli incidenti stradali. Nello stesso periodo la Svizzera figurava tra i primi cinque Paesi europei con il più alto tasso di suicidi tra i giovani. Le cause? Un fallimento nella formazione scolastica, il sentirsi inferiori ai compagni, la perdita di autostima, la mancanza di affetti, la solitudine: tutte sofferenze spirituali che quando diventano insopportabili esasperano quella tendenza all’autodistruzione che negli adolescenti spesso è presente. Forse, se la solitudine non fosse così diffusa nel nostro mondo, molti giovani vivrebbero meglio; nella società di oggi l’individuo ha acquistato una libertà che prima non aveva, si è svincolato dai lacci della comunità dominante, ma così facendo ha anche perso il senso di appartenenza a una comunità. Libertà e solitudine oggi procedono assieme: talvolta, verso una definitiva via di fuga.