Ci sono notizie che provocano vertigini, capogiri, lievi mancamenti. Prendete questa, che proviene da un rapporto dell’ong Oxfam, presentato nelle scorse settimane, in attesa del vertice economico di Davos: l’uno per cento della popolazione mondiale possiede una ricchezza pari a quella del restante 99. Detto con altri numeri: i primi 62 miliardari del pianeta detengono in totale la stessa ricchezza della metà del mondo. Inoltre: nel 2010 questi miliardari erano 388 e probabilmente, se la tendenza non cambierà, nel 2020 saranno solo 11. C’è da immaginare che gli altri 51 tra un decennio non faranno la fame anzi resteranno miliardari pur essendo ragionevolmente amareggiati dall’essere rimasti un po’ indietro nella classifica della sovrabbondanza sfacciata. D’altra parte, se possiedi una decina di panfili, devi essere consapevole che ci sarà sempre qualcuno che ne possiede una dozzina e se ne possiedi una dozzina devi comunque sapere che prima o poi qualcuno ne possiederà una ventina, e così via.
Per i tanti poveracci può essere pure consolante un pensiero del poeta latino Orazio secondo cui «con la ricchezza crescono le preoccupazioni», ma è pur vero che con la miseria le preoccupazioni diventano angoscia e disperazione. Per rendersene conto, basterebbe farsi un giro, in queste serate gelide, sotto i porticati nei pressi della Stazione Centrale della cosiddetta Capitale della Moda e del Design e vedere la fila dei sacchi a pelo (se va bene: di solito sono vecchie coperte) dentro cui si accucciano, a sotto zero, decine di anonimi migranti africani. Un panfilo disponibile per dare loro ospitalità? Rivolgersi a Flavio Briatore (1–, anzi –1, alla simpatia), che tiene un super yacht (vuoto) ormeggiato al largo di Crotone in attesa di invitare l’amico Donald Trump per una crociera estiva.
Poi ci si lamenta: viviamo l’età del risentimento (bell’articolo di Pierluigi Battista sul «Corriere» del 18 scorso). Per smorzare il risentimento, l’aggressività, il rancore, potrebbe essere utile cominciare a smussare le diseguaglianze troppo sfacciate. Niente di impossibile: i 62 arcimiliardari rinuncino a un paio di panfili a testa (ci saranno sempre altri piccoli miliardari pronti a comperarli) e regalino l’incasso alla Caritas italiana che lavora a Lampedusa e in altri luoghi sensibili. Un modesto atto di generosità che contribuirebbe ad alleviare il problema epocale delle migrazioni. In compenso otterrebbero un bel 5+ nella rubrica «Voti d’aria»: mica poco. Se poi i panfili diventano tre, si può sempre salire a 5½.
Notizie da capogiro sono quelle, in genere, che riguardano l’infanzia ferita. Avete mai sentito parlare di «soppressione di stato»? È un reato commesso da chi sottrae un neonato allo stato civile, occultandone l’identità. Per sette anni un bambino di Moncalieri (Torino) è rimasto invisibile pur essendo nato, nel 2009, all’Ospedale Santa Croce: è venuto alla luce per rimanere nelle tenebre, non registrato all’anagrafe, dunque ufficialmente non esistente, trasparente come un fantasma. Mangiava, dormiva, si svegliava, parlava, piangeva, rideva, giocava (ma in solitudine?), cresceva, probabilmente aveva un nome, ma per il mondo non ha mai avuto un’identità, quella che gli avrebbe permesso di usufruire dei diritti civili fondamentali come la salute e l’istruzione.
Il bambino invisibile ha una madre di 48 anni e un padre che ha sempre vissuto all’estero senza preoccuparsi di nulla, tanto meno di suo figlio. Sono stati i carabinieri, nel novembre scorso, a scoprire la sua presenza (e insieme la sua assenza), bussando all’appartamentino di Borgata Testona, in cui il ragazzino ha vissuto all’insaputa del mondo. Insomma, la vertigine è che in un mondo di spie in cui la riservatezza è non un diritto ma un pio desiderio, in un mondo in cui bastano poche tracce digitali per risalire alle identità anagrafiche, ai movimenti, agli incontri, alle amicizie, un bambino può vivere per anni senza essere visto. La vertigine è che la realtà è diventata apparenza intangibile, mentre il virtuale determina le nostre vite. Ora la beffa è che, una volta registrato nei documenti, l’ex bambino invisibile rischia di restare solo, visto che sua madre verrà condannata per «soppressione di stato».
Capogiro è scoprire un capolavoro di purezza e di delicatezza, in fondo un inno alla bontà, nell’epoca acida del risentimento, della rabbia, del rancore. Sto parlando de La mia vita da zucchina (6–), il film di animazione diretto dal disegnatore svizzero Claude Barras, che ha lavorato mettendo in scena dolci personaggi di plastilina dai grandi occhioni a palla: racconto di orfanità infantile dal sapore dickensiano, storia di abbandoni, di dolore, di bullismo pentito, di solidarietà e amore, con un lieto fine non consolatorio, miracolosamente privo di sentimentalismo e pieno di sentimento. Per una volta, una piacevole vertigine.